Un ricorso inutile e polemico, sembrerebbe, non solo perché negli ambienti vicini alla Corte, si ritiene che vi siano poche possibilità che i giudici di Strasburgo si pronuncino a favore dell’istanza, ma anche perché, “dal punto di vista tecnico -come sostiene il sostituto pg della Cassazione, Marcello Matera - la presentazione dell’istanza è come se non esistesse, poiché non ci sono norme giuridiche che possano bloccare il rispetto del verdetto della Suprema Corte”.

Se la sentenza dello scorso 13 novembre chiude, di fatto, il capitolo giudiziario della vicenda Englaro, lo stesso non avverrà per le polemiche che questa storia drammatica ha saputo suscitare. Polemiche che da una parte hanno sortito l’effetto di promuovere il dibattito sul tema della “fine della vita”, dall’altra hanno finito per cadere nella logica riprovevole dell’attacco. Si è parlato di eutanasia, di pena di morte, di una sentenza impietosa, addirittura di una “pericolosa deriva per le persone incapaci”. Una battaglia insensata ed ingiustificata, in primo luogo, contro Eluana, che avrebbe dovuto piegarsi alla cecità della logica della “vita a tutti i costi”, ma anche contro la famiglia Englaro costretta ad un confronto quotidiano con un lutto “diluito” negli anni, ma mai pienamente elaborato, contro il diritto del malato all’autodeterminazione terapeutica, contro la libertà di scegliere.

Beppino Englaro, il papà di Eluana, ha preferito scansare l’ennesima polemica. La sua ultima dichiarazione risale a circa una settimana fa, quando ha preso la parola lo ha fatto solo per annunciare il suo silenzio stampa. “Non posso impedire agli altri di parlare -aveva detto- ma io devo conservare le poche forze che mi rimangono per portare a termine quello che devo fare. So che le proveranno ancora tutte per ostacolarmi, è un gioco senza fine. Ma adesso andrò avanti per la mia strada, in silenzio”.

L’esperienza giurisprudenziale sin qui sperimentata ci dimostra quanto sia necessario un intervento del legislatore, non è possibile rimettere tutto alle decisioni dei giudici, così diverse l’una dall’altra, così disorganiche. A richiamare l’attenzione sulla “necessità di una normativa specifica in materia”, anche il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che giorni fa, in occasione del compleanno di Eluana, in una lettera al presidente del movimento per la vita, Carlo Casini, scriveva: “l’intervento legislativo è indispensabile e non più procrastinabile”.

Ma per la verità, una normativa in materia esiste già. Ne parlava anche la Cassazione nell’ambito di un’altra pronunzia sul caso Englaro: la sentenza 21748/07. Nell’occasione la Suprema Corte annullava il processo d’appello, attraverso il quale i giudici del Tribunale di Lecco avevano negato ad Eluana il diritto ad interrompere il presidio medico sanitario, e rinviava “la causa a diversa Sezione della Corte d’appello di Milano”, evidenziando, allo stesso tempo, il principio di diritto che avrebbero poi seguito i giudici meneghini nell’esprimere il verdetto. Nell’individuazione di tale principio, il giudice passava in rassegna tutta una serie di casi, di esperienze, di norme e concetti, afferenti tanto all’ordinamento italiano quanto a quelli stranieri. Tra i diversi riferimenti rinvenibili nella sentenza, spicca una “Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina” risalente al 4 aprile 1997.

Anche noto come “Convenzione di Oviedo”, dal nome della cittadina iberica dove è stato stipulato, l’accordo, fortemente caldeggiato dal nostro Paese, contiene norme fondamentali, come il riconoscimento del testamento biologico, il no all’accanimento terapeutico ed una regolamentazione del cd. consenso informato. Secondo il giudizio dei bioeticisti e degli organi sanitari che ne hanno fatto un punto di riferimento, si tratta di uno dei documenti più coraggiosi e avanzati che sia stato elaborato negli ultimi dieci anni. Prende in esame i diritti dell’uomo, con le nuove prospettive che la ricerca scientifica rivela, e i nuovi rischi che possono comprometterli.

Il problema però, trattandosi di un provvedimento internazionale di natura pattizia, risiede nel fatto che, come tutti i trattati, dev’essere ratificato dallo Stato e vi dev’essere data esecuzione. Con la legge 145 del 2001, il Parlamento aveva autorizzato la ratifica della convenzione, ma non ne aveva assicurato l’esecutività. Per questo secondo aspetto, si decise di delegare il Governo all’adozione di decreti legislativi che dessero attuazione alla legge stessa. Dopo sette anni, dopo che Governi di diverso orientamento politico si sono alternati alla guida del Paese, quanto prescritto dalla legge 145/01 è rimasto lettera morta. Il fatto lascia intendere che vi sia, una diffusa indifferenza in materia o la precisa volontà politica di non dare attuazione all’accordo.

Sempre in ambito internazionale, opera anche un altro importante trattato, noto come “Convenzione di Vienna”, in virtù del quale, se uno Stato stipula un compromesso internazionale, nel periodo che intercorre tra la stipula dello stesso e la sua esecuzione materiale, lo Stato che aderisce all’accordo non può porre in essere normative contrastante con le disposizioni del compromesso.

Ultimo elemento di particolare interesse è costituito dal “teatrino estivo” che ha preceduto la sentenza dello scorso 13 novembre. Un percorso inverosimile che la dice lunga sull’effettiva volontà -e forse sulle capacità- della nostra classe politica di trovare una soluzione legislativa in materia.

Verso la fine di luglio, di fronte alla seconda delibera della Cassazione sul caso Englaro (21748/07) -quello che individuava il principio di diritto cui avrebbe fatto seguito la sentenza della Prima Sezione Civile della Corte d’appello di Milano- e di fronte al verdetto dei giudici milanesi (88/08 dello scorso 25 giugno), i due Rami del Parlamento sollevavano, a maggioranza, un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale. Camera e Senato, ritenevano, sostanzialmente, che la Cassazione non si sarebbe limitata a trarre dall’ordinamento esistente i principi e le regole necessari a risolvere il caso concreto, ma sarebbe andata oltre, avrebbe creato nuove regole e legiferato in luogo del Parlamento.

La Corte costituzionale, intervenuta nel caso con l’ordinanza 334/08, oltre a dichiarare inammissibile il conflitto ne contestava il merito sostenendo di non rilevare alcuna forzatura nella sentenza emessa dalla Cassazione. Posto che il ricorso di Camera e Senato è stato elaborato a fine luglio, quindi prima della pausa estiva, mentre la sentenza della Cassazione è arrivata a novembre, è paradossale che il Parlamento, pur avendone tutto il tempo, abbia ritenuto prioritario cercare di far naufragare un procedimento giudiziario in atto, piuttosto di proporre per conto proprio una legge che disciplinasse le questioni ancora pendenti.

In un paese rissoso, miope e bigotto, la richiesta incessante di leggi, norme e regolamenti, è subdolamente allevata -quando non apertamente promossa- dalle correnti più ottuse della società, troppo spesso ammaliate dall’idea che quello legislativo sia uno strumento utile a far prevalere le proprie idee, la propria visione del mondo. Ma il “diritto - direbbe Stefano Rodotà - non può divenire uno strumento autoritario, non può imporre valori non condivisi, deve mettersi umilmente a disposizione di tutti”.

Il rapporto fra scienza e diritto. È su questo che si gioca gran parte del dibattito politico e giuridico del nuovo millennio. Su questioni così duttili, instabili, ma anche così soggettive, non è possibile deludere le speranze di chi attende un intervento legislativo che sia davvero “minimo”. Il legislatore deve attenersi all’enunciazione di un semplice indirizzo, di meri principi fondamentali e non pensare di incidere sulla libertà delle persone. Circostanze tanto intime e personali come quella di Eluana, esigono certamente un intervento normativo, ma la risposta sia flessibile, sine ira et studio, non sia frutto di pregiudizi e partigianerie, non imponga elementi che possano poi dirsi superati dal progresso scientifico.

Se la scelta, invece, dovesse cadere tra una cattiva legge o una legge troppo invasiva, come magari quella posta in essere sulla procreazione assistita (unico precedente italiano connesso alla questione “inizio vita” e “fine vita”), forse sarebbe preferibile che i giudici si limitassero ad applicare la Costituzione.
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