di Michele Paris

La settimana scorsa, una serie di avventate dichiarazioni da parte di esponenti di spicco del nuovissimo governo conservatore ungherese, sulla presunta situazione economica del paese, ha scatenato il panico sui mercati internazionali, precipitando l’euro ai minimi storici nei confronti del dollaro. Anche se in parte ingiustificato, e perciò rientrato immediatamente, il lamento di Budapest ha contribuito tuttavia ad amplificare le preoccupazioni per i livelli raggiunti dal “debito sovrano” nei paesi dell’Unione Europea. Timori alimentati ormai a dismisura dai media, dai governi e dalle istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e che preannunciano minacciosamente una nuova durissima stagione di tagli indiscriminati alla spesa pubblica.

A causare lo scompiglio era stato inizialmente, Lajos Kosa, il vice-presidente del partito di governo Fidesz, il quale aveva sostenuto che l’Ungheria rischiava una crisi simile a quella greca, con un deficit di bilancio che nel 2010 avrebbe potuto toccare il 7,5 per cento del PIL. Poco più tardi era toccato a un portavoce del primo ministro Viktor Orban rincarare la dose. L’Ungheria appariva cioè in una situazione molto delicata, possibilmente a rischio di default sul proprio debito. Secondo il nuovo esecutivo di centro-destra, il governo socialista uscente aveva manipolato il bilancio dello stato, occultando un quadro complessivo ben più grave del previsto.

Questi allarmi hanno causato il crollo del fiorino ungherese, seguito a ruota dall’euro, e il rialzo record degli interessi sui titoli di stato decennali. Già nel fine settimana, l’UE e il FMI si sono in ogni caso affrettati a gettare acqua sul fuoco per rassicurare gli investitori, mentre il governo di Budapest è stato costretto ad una mortificante marcia indietro, garantendo che l’ipotesi della bancarotta appariva ben lontana e che l’obiettivo di ridurre il deficit al 3,8 per cento del PIL entro il 2010, come stabilito dai termini del prestito internazionale negoziato nel 2008, sarebbe stato raggiunto.

Sebbene il debito dell’Ungheria non sia nemmeno paragonabile a quello della Grecia e, essendo al di fuori dell’area euro, Budapest può ricorrere alla svalutazione della propria moneta per stimolare l’economia, gli avvertimenti lanciati dal nuovo governo sorprendono fino a un certo punto. Al contrario, sono in molti a credere che essi facciano parte di una strategia ben programmata. Con l’UE e il Fondo Monetario che chiedono rigorose misure di austerity per ridurre il debito, il primo ministro Orban e il suo gabinetto si trovano costretti a muoversi su un terreno minato, fatto di pesanti tagli che rischiano di rendere da subito impopolare una coalizione che solo lo scorso mese di aprile aveva conquistato una vittoria a valanga nelle elezioni parlamentari.

Tanto più che, di fronte alla politica di rigore del governo socialista di Gordon Bajnai, il partito di Orban aveva condotto una campagna elettorale basata sulla promessa di rilancio dell’economia senza ricorrere a nuove tasse e a misure di contenimento della spesa particolarmente drastiche. La rappresentazione esagerata dello stato dell’economia ungherese è giunta così come avvertimento alla popolazione e come giustificazione dei sacrifici che stanno per arrivare. Puntualmente, infatti, dopo aver rinfrancato i creditori internazionali, il governo conservatore ha varato un pacchetto di provvedimenti punitivi che è stato subito presentato in Parlamento.

Come in molti altri paesi europei, anche in Ungheria si sta dunque per procedere con l’illusione di rivitalizzare l’economia intervenendo prematuramente sull’aggiustamento del deficit, peraltro gonfiato dall’incremento della spesa pubblica seguito alla crisi del 2008. In un paese come l’Ungheria, particolarmente colpita da una enorme bolla immobiliare e la cui ripresa appare alquanto incerta (+0,1% nel 2010 secondo le stime di Goldman Sachs), una ulteriore compressione della domanda interna, prodotta dai tagli alla spesa, rischia di prolungare drammaticamente il periodo di recessione in corso.

Un percorso che sarà segnato da elevatissimi livelli di disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione. Su questa strada si sono già incamminati non solo i paesi più a rischio, come Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda, ma anche le economie europee più forti. Solo pochi giorni fa, il FMI ha nuovamente incoraggiato i paesi dell’area euro ad adottare nuovi tagli per non mettere a repentaglio la fiducia dei mercati finanziari. Corollario dell’austerity, naturalmente, anche “l’apertura dei mercati” e “la deregolamentazione del mercato del lavoro”.

Per quanto il Segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, abbia chiesto ai paesi europei di stimolare la loro domanda interna, sia pure per favorire l’export a stelle e strisce, la tendenza da questa parte dell’oceano sembra invece andare dalla parte opposta. In concomitanza con le iniziative di Budapest, i governi conservatori di Londra e Berlino hanno annunciato i loro piani d’intervento per ridurre la spesa pubblica.

Ricalcando un motivo ormai consueto, il primo ministro David Cameron ha definito la situazione finanziaria britannica “peggiore del previsto”, costringendo il nuovo governo di coalizione ad operare tagli selvaggi per riportare il deficit sotto controllo. Se anche l’alleato dei conservatori, il liberale Nick Clegg, ha assicurato che la Gran Bretagna non rivivrà l’incubo degli anni Ottanta sotto la guida di Margaret Thatcher, le prospettive non sono incoraggianti.

Allo stesso modo, nubi minacciose si stanno per abbattere sui lavoratori tedeschi, dove il cancelliere Angela Merkel ha appena presentato un piano di austerity che prevede un colossale taglio alla spesa pubblica, e in particolare ai generosi programmi sociali, pari a 85 miliardi di euro entro il 2014. Il programma del governo tedesco include, tra l’altro, la soppressione di dieci mila posti di lavoro nel settore pubblico e la drastica riduzione dei sussidi alle famiglie e ai disoccupati. Per non guastare i rapporti della Merkel con l’alleato ultraliberista Guido Westerwelle, leader del Partito Liberale Democratico (FDP), non è previsto invece alcun aumento delle tasse, nemmeno per i redditi più alti.

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