di Eugenio Roscini Vitali

Il 18 ottobre scorso, sul sito internet della rete televisiva iraniana Press TV è stata pubblicata la notizia secondo la quale il Majles, l’Assemblea Consultiva della Repubblica Islamica dell’Iran, ha approvato gli articoli 1 e 2 del disegno di legge sul piano di riforma dei sussidi: taglio degli aiuti di Stato sui prodotti energetici. La norma, che nell’arco dei prossimi cinque anni punta a ridurre gradualmente la domanda e la conseguente spesa destinata all’import dei prodotti derivanti da raffinazione, comprende tutte le categorie dei beni sui quali, fino ad ora, l’amministrazione pubblica è intervenuta con sovvenzioni e sgravi fiscali: combustibili da trasporto, gas ed energia elettrica e, di conseguenza, prodotti alimentari. Nulla di strano se non fosse altro che con questa decisione il parlamento consegna al presidente Mahmoud Ahmadinejad il controllo su una cifra che varia tra i 30 e i 50 miliardi di dollari, fondi che il Tesoro avrebbe altrimenti destinato al sostegno delle fasce sociali più deboli.

Il voto, che ora attende l’approvazione del Consiglio dei guardiani, non è stato comunque unanime: il radicale Ayatollah Ahmad Jannati, membro fondatore dell’influente istituto Haghani, scuola teologica vicina alle posizioni di Ahmadinejad, ha argomentato la decisione ritenendo vergognoso mantenere un sussidio che al 70% ricade sulle tasche di quel 30% della popolazione che appartiene alle classi più agiate; il ministro dell’Economia, Shamsoddin Hosseini, ha definito la legge una riforma strutturale destinata a combattere l’inflazione.

Il presidente del Parlamento, Ali Larijani, si è detto invece contrario e non ha nascosto le sue perplessità su una decisione politica che, in un paese alle prese con pesanti sanzioni internazionali, non risana l’economia ed evita altresì di imporre un maggiore controllo sulle spese decise dal governo. In un intervento alla televisione di Stato, Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato che “il piano dovrebbe prevenire l’eccessiva crescita dei consumi così come intervenire nelle ingiustizie sociali attraverso la ridistribuzione degli aiuti”; in Iran il prezzo della benzina applicato fino ad oggi è uno dei più bassi al mondo: con l’attuale sistema, alla pompa i primi cento litri vengono pagati 0,38 dollari per gallone (0,10 dollari al litro); oltre questo limite il prezzo sale a 1,50 dollari per gallone (0,40 dollari al litro).

Ufficialmente i funzionari giustificano il taglio dei sussidi con la necessità di recuperare parte dei 90 miliardi di dollari stanziati annualmente dal governo per gli aiuti di Stato; una manovra destinata ad orientare i fondi verso il finanziamento di progetti ed interventi infrastrutturali e per sostenere le fasce più povere con aiuti mirati. Alcuni economisti sostengono comunque che portare il prezzo dei carburanti ai livelli del mercato internazionale porterà soltanto ad un brusco effetto inflazionistico e farà lievitare il costo dei generi di prima necessità: in Iran il 30% del budget è destinato ai sussidi ed il regime deve fare i conti con l’inasprimento delle sanzioni economiche e con il crollo della domanda del greggio, passato dai 147 dollari al barile di metà 2008 ai 40 dollari al barile del marzo scorso; l’inflazione registrata ad ottobre è stata pari al 16,7%, in ripresa rispetto al 18,5% del mese precedente e al 28% del settembre 2008 ma sicuramente più alta del 10,9% segnato nell’agosto 2005, mese di inizio del primo mandato Ahmadinejad.

Il piano di riduzione arriva in un periodo particolare per il Paese: sottoposto alla pressioni della comunità internazionale, il regime deve rispondere alle proposte di accordo avanzate dall'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sul progetto nucleare iraniano e sulla recente scoperta di un secondo sito per l’arricchimento dell’uranio a Qom. Un rifiuto potrebbe portare la comunità internazionale a decretare nuove sanzioni e, come dichiarato in una intervista al settimanale tedesco Der Spiegel dallo stesso presidente russo Dimitry Medvedev, questa volta Teheran non potrebbe contare sull’appoggio di Mosca. In Iran però l’invito alla calma e alla collaborazione avanzato dal Cremlino non pare aver trovato spazio e l'Agenzia Spaziale Iraniana (ISA) non è sembra disposta a fermare lo sviluppo dei vettori Sejil II e Shahab III, missili con un range di duemila chilometri, capaci di raggiungere Israele e le basi statunitensi nella penisola arabica.

Smentendo chi pensa alla possibilità di un accordo con le grandi potenze sul nucleare, Ahmadinejad starebbe sfruttando la drastica riduzione sui sussidi di Stato per trasferire i fondi nel programma atomico e nello sviluppo di missili balistici a lunga gittata: questa l’idea di quei “malpensanti” che poco credono del pragmatismo del leader iraniano e al contrario, ritengono Ahmadinejad più forte che mai e pronto ad affrontare la sfida con l’occidente. La preoccupazione scaturisce dall’efficienza raggiunta dai tecnici dell’ISA che a quanto pare non hanno più bisogno dell’assistenza dei colleghi nord coreani o cinesi per raggiungere risultati eccellenti.

Per dimostrarlo basti pensare all’ambizioso programma Safir-Omid e al secondo satellite spia che l’Iran si prepara a mandare in orbita sopra il Medio Oriente: vettore Safir II, ufficialmente sviluppato per scopi civili; satellite Omid II da 200 chilogrammi, 8 volte più pesante del suo predecessore Omid I lanciato con successo il 2 febbraio scorso. Secondo gli esperti, se il lancio dovesse avere successo, l’Iran sarebbe in grado di produrre missili a propellente solido capaci di colpire obbiettivi  a 2450 chilometri di distanza, un range che coprirebbe non solo Israele e la Turchia, ma anche la Grecia e gran parte dell’Europa orientale.
 

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