di Rosa Ana de Santis

Il Nord dell’Uganda è perseguitato da una feroce guerra intestina da numerosi anni. L’esercito del comandante Kony, un delirante mistico in abiti militari, minaccia indisturbato il territorio e le persone. La gente non lavora, non coltiva i campi, una porzione di paese appassisce nella paura. La caccia all’uomo, diventata nel tempo poco credibile, continua senza sosta e l’esercito regolare di Kampala ha ottenuto l’autorizzazione dalla Repubblica Centrafricana per operare nei territori di sua competenza dove sembra si siano nascosti alcuni dei ribelli al seguito di Kony.

L’Uganda, fatta eccezione per la zona semidesertica della Karamoja, non è l’Africa del deserto arrugginito dal sole. E’ una perla di laghi e di fertilissimo verde, ma la paura impedisce ogni forma duratura di riscatto. La vita è ferma, l’istruzione dei bambini, i passi dei loro interminabili tragitti per andare a scuola non sono sicuri, l’economia è in arresto. Negli ultimi mesi l’esercito ugandese ha operato nelle zone del Parco della Garamba, nella Repubblica Democratica del Congo e, proprio qui, i ribelli nascosti avrebbero commesso numerosi massacri di civili, fino a disperdersi nel territorio della Repubblica Centrafricana, teatro delle nuove operazioni belliche.

Il criminale Kony, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, sembra diventato un fantasma. Compare per qualche grido d’assalto alla stampa locale, il governo sembra conoscere ogni suo spostamento; di lui si raccontano le gesta terribili e le stranezze efferate del privato, ma fugge e continua a fuggire. I villaggi scompaiono dalle cartine e la popolazione è contagiata da troppo tempo da una paura paralizzante. Nella zona orientale, soltanto vicino alla missione di Dongu, da 25 villaggi ne sono rimasti 5. La gente che scappa è finita a sovrappopolare i centri urbani che non riescono a sostenere i nuovi arrivi.

Quegli abitanti in fuga sono diventati i disperati straccioni delle città, i nuovi ammalati, i pària della vita urbana. E quella terra verde che poteva nutrire ancora quei centri abitati e quelle famiglie è stata abbandonata. Improduttiva e dimenticata. Gli aiuti mirati delle ONG, le attività delle missioni disperse nei luoghi più remoti della lingua acholi - quella parlata nel nord del paese - é ormai chiaro che non potranno bastare a sollevare il popolo e quelle terre da ferite così profonde. Famiglie mendicanti, figlie femmine rapite e stuprate, giovani maschi drogati per combattere in fasce rappresentano ormai una diaspora costante interna ai confini ugandesi.

E’ davvero strano raccontare di questa foresta piena di spettri che continua a uccidere e a fare saccheggi. Strano che il governo non riesca ad ottenere risultati, ma ripetute condizioni da parte dei ribelli e fasulli annunci di tregue e mediazioni. Negoziati di carta. Strano, soprattutto ora che le nuovi basi dei ribelli sono in Congo, ricercate anche dai militari congolesi appoggiati dalla missione ONU. Gli interrogativi di una guerriglia interna che sembra troppo utile a tanti iniziano a diffondersi anche tra le persone più comuni e la sensazione è che quei feroci assassini non siano solo fantasmi. Non per tutti.

Le ultime notizie dicono che l’esercito regolare è diventato più attivo, finalmente. E il governo del presidente Museveni cosa fa? Mantiene cristallizzata la sua finta repubblica, non si affanna “all’occidentale”, come é solito dichiarare, sui grandi traumi del suo paese e riesce a rimanere sempre con le mani pulite. Amico dell’Occidente pur esprimendo allergia per il concetto politico del multipartitismo, a suo avviso molto poco adeguato al pianeta Africa, non ha sradicato la piaga di un conflitto fatale per la sua gente ed è rimasto, indiscutibile faraone, al posto di comando.

L’annunciato impegno del governo per il rientro dei profughi nei villaggi si è dissolto senza troppe spiegazioni. I campi profughi che andavano chiusi sono rimasti lì, gonfi di orfani e disperati. La lettura di questo scontro tra il governo dei buoni e l’opposizione dei cattivi sanguinari sembra spiegare sempre meno i fatti e con sempre meno persuasione.

Le cause sono lontane nel tempo. Il governo ha lavorato sempre per il sud dell’Uganda, la terra del Presidente, seppellendo il Nord e spaccando in due il paese. Oscuri intrecci sono quelli che animano Kampala. Oscuri i rapporti tra il Presidente e la tribù dei pastori seminomadi Karamojong , improvvisamente ben armata di fucili automatici ai danni della popolazione del Nord. Nello scontro con i ribelli non convertiti e rimasti al seguito di Kony è sempre stato lo stesso governo centrale a coinvolgere la popolazione dei villaggi contro il nemico finendo con l’incentivare la persecuzione porta a porta dei civili.

Le operazioni di Kony hanno ricevuto cospicui aiuti dal Sudan, mentre dal 2001, l’annovero dei rivoltosi nella lista nera dei terroristi, ha coperto Musuveni di succulenti dollari americani e lo ha fregiato di frequenti strette di mano con la Casa Bianca.

Ma allora come fa un governo con sponsor occidentali di grosso calibro e soldati ben addestrati a non annientare i ribelli? E’ proprio questa domanda, apparentemente ingenua, a far calare un’ombra sui piani del governo. A cosa serve una guerra che appare troppo ridicola per sembrare infinita? A ridurre all’inettitudine un paese intero, forse. A lasciare in pace il potere, a lasciare quella gente lì dove sta, come sta.

Emily è una bambina di Gulu. Era seguita da un progetto di adozione a distanza. Di lei non si hanno notizie da tempo. Dove è fuggita, chi l’ha presa, nessuno può stabilirlo in una terra fuori controllo. Per lei, piccola di 9 anni, la foresta era davvero abitata di fantasmi. La guerra lì nasce e cresce come una pianta da terra. C’è e basta. Fa parte del paesaggio, si attacca ai colori della frutta e ai piedi scalzi arroventati dal terreno. Emily e tanti bambini sono diventati invisibili. Perduti. Ma c’é la guerra in Uganda, ancora guerra e ce ne sarà anche per domani. Non c’è tempo per cercarli, né modo. E’ fredda la foresta che li ha mangiati ai margini dei villaggi. Qualcuno in città dice che forse un giorno torneranno. Altri non li aspettano più.
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