di Fabrizio Casari

Incompetente. Fanatico guerrafondaio. Incapace a gestire operazioni militari e privo di leadership politica. E' l'identikit di Donald Rumsfeld, il superfalco Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, che però non è stilato da qualche movimento socio-comunista o da qualche intellettuale liberal.
E' la stampa statunitense, New York Times e Washington Post in testa, a definire in termini così poco lusinghieri e così tanto attinenti alla realtà lo Stranamore preferito di Bush.
Ma l'attacco al superfalco non viene dai media; non si tratta cioè di una campagna di stampa ideata a freddo nelle redazioni dei due potenti quotidiani, bensì della pubblicizzazione delle convinzioni che si raccolgono tanto nell'opinione pubblica come al Pentagono. Proprio il quotidiano newyorkese ha pubblicato tre giorni fa un articolo in prima pagina dove è sferrato un'attacco senza precedenti a Rumsfeld, al quale si chiede di dimettersi e anche con una certa premura. L'articolo - e qui sta la novità - é firmato da sei alti ufficiali statunitensi: Paul Eaton, Anthony Zinni, Gregory Newbold, John Riggs, Charles Swannack e Batiste; tutti protagonisti delle ultime campagne militari statunitensi in giro per il mondo. E se non bastasse, stando a quanto scrive il Washington Post, il grado di rigetto del Segretario alla Difesa avrebbe raggiunto il 75 per cento dei militari a stelle e striscie.

Rumsfeld, insomma, starebbe superando il suo presidente nel livello d'impopolarità di cui "gode" e del quale offrono testimonianza diretta tg e blog, sondaggi ed opere teatrali, oltre che diversi congressman.
E se il New York Times e il Washington Post espongono senza remore le critiche interne ed esterne all'establishment, la rivista online Salon.com ha pubblicato un rapporto di ben 391 pagine stilato dall'Ispettore Generale dell'esercito, nel quale verrebbe provato il coinvolgimento diretto di Rumsfeld negli interrogatori-torture di Guantanamo alla fine del 2002, ai danni di Mohammed al Kahtani, prigioniero di Al-Queda. Compagno di tortura di Donald Rumsfeld sarebbe stato il generale Goffrey Miller, personaggio che con una buona dose di eufemismo è possibile definire controverso.

Le armi di sterminio di massa, la guerra globale al terrorismo, cioè le panzane rifilate all'intera umanità per giustificare la guerra in Iraq, sembravano aver consacrato Rumsfeld nel ruolo d'intoccabile. Punto di riferimento fondamentale per la Casa Bianca, interlocutore privilegiato del complesso militar-industriale, ispiratore tra i più importanti del pensiero teocons e uomo di punta nell'organizzazione dell'immagine della superpotenza in chiave di minaccia ad avversari ed amici tiepidi, il Segretario alla Difesa aveva goduto di un margine di manovra politica e di uno spazio di visibilità personale superiore a tutti i suoi predecessori.

Ma l'incapacità di vincere sul terreno militare e politico la guerra in Iraq, venduta come operazione lampo di libertà duratura e rivelatasi poi occupazione perdente dal punto di vista del controllo del paese, da diverso tempo aveva ridotto ai minimi termini la credibilità e affidabilità del superfalco.
Nemmeno il fosforo di Falluja, che l'hanno assegnato alla già folta schiera dei criminali di guerra statunitensi e del quale dovrebbe rendere conto alla comunità giuridica internazionale, è riuscito a volgere le sorti della guerra irachena a vantaggio degli Usa. Il pantano iracheno offre alle televisioni statunitensi l'angosciante contabilità delle morti americane (tralasciando volutamente quelle irachene) e la manifesta inadeguatezza dell'esercito Usa a far fronte ad una guerriglia su vasta scala; due elementi che hanno definitivamente convinto i militari e l'opinione pubblica statunitense che Washington si trova di fronte un altro Viet-nam nell'area del Golfo Persico. Non c'è una giungla impenetrabile e geopoliticamente poco importante a discolpare i militari Usa dall'incapacità di prevenire attentati: ci si trova in un deserto a fronteggiare un'attività guerrigliera, nella zona a più alta perforazione petrolifera. La guerra si combatte nell'area del petrolio ed il ritmo tremendo delle perdite di vite umane si associa a quello del rialzo delle quotazioni del greggio.
E se l'occupazione dell'Iraq era cominciata con squilli di trombe, giornalisti embedded e retorica guerrafondaia sul "gigante della democrazia", il suo sviluppo - fatto di uccisioni d'innocenti, città rase al suolo, lager e torture, ha portato disonore e vergogna per l'operato dei militari a stelle e striscie guidati da Rumsfeld. A tutto ciò si è aggiunta l'evidente incompetenza politica nell'organizzare le elezioni prima ed il governo poi ritenendo il paese già pacificato e pronto per essere compreso tra i protettorati, solo un po' più lontano di Porto Rico.

Per ora Bush difende il suo braccio destro, che diversamente dal Presidente è in grado di articolare un pensiero con perlomeno due passaggi. Ma il destino del superfalco è segnato ed il fatto che sia indissolubilmente legato a George Bush non può che aumentare il livello di attenzione per la crisi politica che ne potrebbe derivare. L'incapacità di trovare una soluzione che consenta agli Usa un ritiro che non risulti una ritirata, un venir fuori che non sia una sconfitta, è stato l'ultimo appuntamento con la politica al quale Rumsfeld non si è presentato. In attesa, è l'auspicio, di vederlo presentarsi come imputato per crimini di guerra davanti ad un tribunale composto da giudici togati. Quello della storia ha già emesso la sua sentenza.

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