di Maurizio Musolino

La decisione dell'Unione europea di sospendere i fondi destinati all'Autorità nazionale palestinese non ha sorpreso nessuno. Innanzitutto perché arriva dopo una analoga decisione assunta nei giorni precedenti dall'Amministrazione statunitense, confermando così una preoccupante sudditanza verso la Casa Bianca; poi perché si somma ad una serie di misure che da oltre due decenni caratterizzano le politiche dei Paesi occidentali in quell'area del mondo. Infatti, dietro una facciata fatta da accuse durissime verso Hamas, di minacce (spesso risultate concretissime) e da proclami di lotta contro l'integralismo islamico, si nasconde una strategia che ha, più o meno colpevolmente, favorito proprio l'espandersi dell'islam politico.
Ripercorriamo velocemente questi ultimi due decenni. Partiamo con la decisione, presa dai governi israeliani nella prima metà degli anni Ottanta, di sostenere, a volte con aiuti concreti altre chiudendo un occhio, la nascita dell'organizzazione Hamas. Lo scopo dichiarato di questa complicità era allora quello di creare un contro altare all'Olp e a Fatah, insomma dividere il popolo palestinese per meglio controllarlo e dominarlo. Una sconvolgente ammissione a questo proposito arrivò nel 1994 proprio da Itzak Rabin, che in occasione di un attentato messo a segno da Hamas, dichiarò che le responsabilità precise sulla nascita di quella organizzazione risiedevano proprio nei palazzi dei servizi segreti di Israele. Parole pesantissime. Nel decennio successivo, gli anni Novanta, i governi israeliani, dopo la morte di Rabin per opera di un estremista ortodosso ebraico, hanno sistematicamente continuato ad agire per discreditare l'Anp di Arafat: non rispettando gli accordi presi e distruggendo con precisione scientifica tutte le strutture dell'Autorità nazionale a partire dalle carceri e dalle caserme di polizia. In questo contesto, da una parte Hamas poteva aumentare il suo prestigio fra i palestinesi dei territori occupati da Israele delusi da accordi puntualmente disattesi, dall'altra si consentiva uno svilupparsi di milizie private e di gruppi paramilitari che nel tempo hanno assunto direttamente il controllo di pezzi sempre più vasti di territorio.


Si arriva così alle elezioni dello scorso gennaio e alla vittoria di Hamas. Elezioni quasi imposte dal "Quartetto" (le nazioni che dovrebbero presiedere al rispetto di un percorso per riaprire il dialogo e le trattative fra i palestinesi e gli israeliani) e considerate dagli ispettori internazionali effettuate con elevati standard di democrazia e di partecipazione. Il risultato di questo voto però, almeno a parole, sembra non piacere affatto né agli Usa, né agli alleati europei di Bush. Un risultato però da tutti considerato quasi scontato. Israele poteva cercare di influire al fine di non far vincere la forza religiosa, ad esempio scarcerando il leader laico Marwan Barghouti, ma non ha voluto. Hamas vince dunque le elezioni e subito si scatena in mezzo mondo un attacco contro la struttura dell'Anp e, soprattutto, si mette in piedi una campagna per delegittimare Hamas: è una organizzazione terrorista, non riconosce Israele, è fuori dal consenso internazionale.

A nulla valgono le parole, spesso contraddittorie, dei leader dell'organizzazione islamica e soprattutto il rispetto di una tregua che, da diversi mesi, assicura sonni sereni a molti israeliani. A fronte di questa tregua Israele continua invece a scatenare assassinii di leader palestinesi e si rifiuta di consegnare alle casse palestinesi quanto trattiene sui dazi delle merce che entrano dentro Gaza e Cisgiordania. Una vera e propria rapina.


In queste prime settimane dopo la vittoria di gennaio, Hamas ha cercato di presentarsi al mondo con un abito moderato; il primo ministro Ismail Haniyeh ha incontrato molti leader mondiali e sul fronte interno cerca di dare risposte alle domande immediate del suo popolo. Buonsenso imporrebbe ai Paesi Occidentali di sfruttare questa nuova veste di Hamas per portarla definitivamente fuori dalle tentazioni terroriste e di farne un interlocutore per il dialogo. Invece accade proprio il contrario. Le cancellerie europee fanno a gara per dichiarare l'indisponibilità a parlare con i ministri di Hamas e soprattutto si succedono una dopo l'altra le dichiarazioni di congelamenti degli aiuti. Cosa produce ciò? Innanzitutto favorisce le forze politiche - ed Hamas è una di queste - che cercano di accreditare un Occidente supino alle politiche di Bush e incapace di imporre nell'area una vera giustizia e il rispetto della legalità internazionale. Perché - si domanda il popolo palestinese - nessuno impone sanzioni o autorizza blocchi contro Israele, colpevole di non rispettare decine di risoluzioni dell'Onu?

Esiste poi un secondo rischio. Alcuni Paesi islamici si sono detti disponibili ad aprire le loro casse per aiutare Hamas e il suo governo sostituendosi agli europei. Indonesia in testa, ma anche Arabia Saudita ed altri Paesi del Golfo non vedono l'ora di divenire potenze dell'area grazie a qualche elargizione. Si parla di circa 120 milioni di euro. In questo modo si consegnerebbe il popolo palestinese alle influenze islamiche di questi Stati, spesso ben più conservatori ed integralisti dello stesso Hamas.
Ecco quindi l'ennesima conferma di atti concreti che spingono le popolazioni nelle braccia dell'estremismo religioso. Del resto, il blocco dei fondi annunciato dall'Unione europea, è solo un piccolo esempio. A pochi chilometri di distanza, in Iraq, una guerra sporca e illegale ha portato una frammentazione oggi teatro di una situazione dove i germi del terrore fioriscono e si sviluppano.

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