di Eugenio Roscini Vitali

A volte la buona volontà non basta ma, almeno nelle intenzioni, l’apertura al mondo arabo della nuova amministrazione americana è evidente. Rivolgendosi ai musulmani di tutto il mondo Barack Obama ha ammesso gli errori dei suoi predecessori e, nel ribadire il cambiamento, ha dichiarato: “Non siamo vostri nemici”. Una svolta diplomatica confermata dalle indiscrezioni pubblicate dal quotidiano britannico The Guardian che parla di una lettera del Dipartimento di Stato con la quale la Casa Bianca assicura Teheran sulle intenzioni del suo paese: non si vuole rovesciare il regime islamico ma ottenere soltanto un diverso atteggiamento tra i due paesi. Indirizzato al supremo leader religioso iraniano, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei, il messaggio rappresenta la risposta alle congratulazioni ricevute dai vertici della Repubblica islamica in occasione della vittoria elettorale, un gesto simbolico di apertura verso Teheran che rappresentare un autentico cambio di strategia rispetto alla precedente amministrazione Bush. Dall’Iran la risposta non si è fatta attendere e, come controprova alla proposta di dialogo, il presidente Mahmud Ahmadinejad ha subito ribattuto chiedendo un segno tangibile del cambiamento: voltare le spalle ad Israele. Pretendendo da Washington le scuse e il risarcimento dei danni causati da 60 anni di interferenze, il presidente iraniano ha chiesto agli Stati Uniti di mettere fine al sostegno “dell’illegale e falso regime sionista” e, utilizzando i toni duri della propaganda iraniana, ha parlato di cambiamenti tangibili. La posizione di Ahmadinejad è stata confermata dal consigliere governativo Aliakbar Javanfekr, che sul problema del nucleare ha ribadito le intenzioni di Teheran di non voler fermare le sue attività di ricerca e sviluppo. Sulla risoluzione delle Nazioni Unite, Javanfekr ha risposto ai giornalisti che quella fase è stata ormai superata: “Abbiamo respinto le risoluzioni, che sono state elaborate sotto la pressione degli Stati Uniti”.

In Iran la campagna elettorale per le presidenziali è ormai partita e Ahmadinejad non ha perso l’occasione per trasformare l’offerta di Obama in uno dei suoi soliti comizi. Dalla città di Kermanshah, il leader iraniano ha elencato una serie di atti compiuti dagli americani contro Teheran, dal golpe del 1953 con cui fu rovesciato il premier Mohammed Mossadegh al tentativo di fermare il progetto nucleare iraniano. Poi ha parlato della presenza militare americana nel mondo e dell’ingerenza di Washington negli affari interni degli altri popoli; contro George W. Bush ha usato parole durissime: “E’ stato gettato nella pattumiera della storia come una pagina nera piena di crimini e tradimenti contro l'umanità” e ad Obama ha chiesto cambiamenti tangibili: “I cambiamenti avvengono in due modi. Il primo è fondamentale ed effettivo, il secondo è un cambiamento di tattica. Se il significato di cambiamento è il secondo, sarà presto dimostrato”.

Retorica, il solito populismo rivoluzionario con cui il presidente pasdaran ha vinto le consultazioni del 2005, con il quale ha portato avanti quattro anni di regime e con il quale evidentemente si prepara a correre per la presidenza della Repubblica Islamica. Ahmadinejad gode dell’appoggio dei Guardiani della Rivoluzione e sicuramente è ancora l’uomo da battere, ma ormai sembra aver perso i favori dell’ayatollah Khamenei, l’autorità religiosa che in più occasioni lo ha pubblicamente difeso dagli attacchi dell’ala riformista e dell’opinione pubblica più progressista. L’estate scorsa la scena politica iraniana è stata teatro di un cambiamento fondamentale: in relazione alla questione nucleare, il consigliere per gli Affari Internazionali della Guida Suprema, Ali Akbar Velayati, è intervenuto chiedendo ai funzionari e agli esperti politici internazionali di non tenere in considerazione le “dichiarazioni illogiche e provocatorie” provenienti da certi esponenti di Teheran. Una posizione forte che lascia capire quanto complesse sia le dinamiche politiche interne al governo iraniano.

Oltre all’abbandono di Khamenei, il 12 giugno Ahmadinejad dovrà fare i conti con i risultati di una politica economica fallimentare, con una strategia finanziaria che ha portato l’inflazione al 30 per cento e con le promesse su un patto sociale mai realizzato, promesse che parlavano di redistribuzione dei redditi e lotta alla corruzione. A destra il calo di consenso potrebbe comunque essere arginato da due personaggi di grande impatto e rilievo politico: Mohammad-Bagher Ghalibaf, sindaco di Tehran, e Ali Larijani, ex negoziatore per il nucleare, attuale presidente della Camera e nuovo pupillo della Guida Suprema.

L’opposizione si presenta invece ancora divisa e per il ritorno ad un’era riformista diventa determinante il ruolo della nuova amministrazione americana: tra i candidati ci sono nomi quali Mehdi Karroubi, leader del partito Etemad Melli; Mohammad-Reza Aref, ex vice presidente del secondo mandato Khatami; Hossein ?Kamali, capo del Hezbe Islami-e Kar (Partito Islamico del Lavoro); l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi, candidato del partito Mardomsalari, e Hassan Rowhani, sostenuto dall’ala moderata del partito Kargozaran. Non è poi ancora esclusa la partecipazione dell'ex presidente riformista Mohammad Reza Khatami, appoggiato da gran parte del mondo intellettuale e dalla gioventù studentesca.

Sono molte le ragioni per le quali Barack Obama è interessato al futuro dell’Iran: per l’importanza strategica, sia politica che militare; per la questione sul supporto che Teheran offre ai gruppi terroristici, fatto direttamente legato all’influenza shiita in Iraq, Afghanistan e nel vicino Medio Oriente; per il programma nucleare, problema che la Casa Bianca vorrebbe risolvere senza arrivare al muro contro muro e che rimane al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sono in molti a credere che comunque il presidente Usa, sperando nell’elezione di una figura più moderata, voglia guadagnare tempo e scoprire le carte dopo il 12 giugno. A questo punto sta ad Ahmadinejad dimostrarsi più moderato, perché il 12 giugno si vince solo se si parla il linguaggio del dialogo e, con Khatami, i riformisti hanno dimostrato di saperlo fare.

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