di Michele Paris

A mezzogiorno in punto di martedì 20 gennaio 2009, come stabilisce il 20esimo Emendamento della Costituzione americana al di là dell’avvenuto giuramento, Barack Obama è diventato ufficialmente il 44esimo presidente degli Stati Uniti. Oltre ad assumere la guida del paese, il primo comandante in capo di colore della storia americana dovrà farsi carico da subito di una lunghissima lista di problemi interni ed internazionali, in gran parte ereditati dall’amministrazione uscente. Per quanto l’entusiasmo propagatosi da Washington a praticamente tutto il pianeta nel corso della cerimonia di insediamento abbia pochi precedenti e faccia da contrasto all’immagine fortemente simbolica della solitudine di Bush e del suo vice Cheney – costretto su una sedia a rotelle a causa di un infortunio domestico – nell’appressarsi al palco delle celebrazioni al Campidoglio, sarà tutt’altro che semplice per Obama rispondere anche solo in parte alle enormi aspettative suscitate dalla sua parabola politica e personale. Guantánamo. La chiusura del carcere di massima sicurezza sull’isola di Cuba è stata annunciata come una delle priorità dell’amministrazione Obama ed è strettamente legata alla volontà di porre fine alla sistematica violazione del diritto esercitata negli ultimi sette anni in nome della lotta al terrorismo. Non a caso, il primo provvedimento preso nelle vesti di presidente degli Stati Uniti da Obama è stata la sospensione per un periodo di quattro mesi di ogni processo in corso a carico dei detenuti presso la base navale di Guantánamo. Una mossa che permetterà al nuovo presidente di valutare attentamente la legittimità dell’intero sistema procedurale messo in atto nei confronti dei prigionieri della guerra al terrore di George W. Bush e la possibilità di sottoporli al giudizio di corti federali sul territorio americano.

Il percorso verso la chiusura del carcere americano offshore si annuncia tuttavia più lungo del previsto e ricco di ostacoli, a cominciare dalla resistenza già manifestata dai membri dei tribunali miliari incaricati dei procedimenti in corso da anni. Molti detenuti inoltre sono ritenuti estremamente pericolosi e coinvolti in qualche modo nella rete terroristica di Al Qaeda, ma la mancanza di chiari elementi di prova renderebbe quanto meno improbabile una loro condanna di fronte ad un tribunale ordinario. Altri ancora, pur in presenza di prove della loro colpevolezza, sono stati sottoposti a vergognosi trattamenti sconfinati spesso nella tortura, minacciando di rendere impraticabile un qualsiasi normale processo.

Per i detenuti ingiustamente rinchiusi a Guantánamo infine – alcuni dei quali già beneficiari di sentenze di immediato rilascio – rimane la questione della loro prossima destinazione. Se inviati nei loro paesi di origine infatti – come Cina o Yemen – essi potrebbero rischiare nuove detenzioni o torture. Con il passaggio di consegne alla Casa Bianca tuttavia, qualcosa si sta muovendo ed alcuni paesi occidentali (Portogallo e Australia in primis) hanno già manifestato la loro disponibilità ad accogliere tali prigionieri entro i propri confini.

Crisi economica. Un pacchetto di stimolo all’economia da circa 825 miliardi di dollari – che andrà ad aggiungersi ai 700 già stanziati dall’amministrazione Bush qualche mese fa per salvare Wall Street – sta per essere discusso proprio in questi giorni al Congresso. Per far fronte ad una crisi senza precedenti nella storia recente degli USA, sono previsti circa 550 miliardi da destinare a spese per la costruzione di nuove infrastrutture e per il sostegno dei redditi più bassi e 275 miliardi in tagli al carico fiscale per i redditi più bassi.

L’avanzamento del piano di salvataggio dell’economia è tuttavia già stato ostacolato e modificato nella sua forma originaria dagli stessi parlamentari democratici, preoccupati per la scarsa efficacia dei provvedimenti, e dovrà in ogni caso far fronte ad una dilatazione abnorme del deficit di bilancio che, a detta dello stesso Obama, potrebbe toccare i 1.200 miliardi di dollari alla chiusura del prossimo anno fiscale.

Cattive notizie per il nuovo presidente sono giunte di recente anche da alcuni paesi tradizionalmente propensi ad investire nel debito pubblico statunitense ed ora molto più tiepidi. Un rallentamento questo dettato in parte dalla necessità di molti paesi – Cina in primo luogo – di impiegare parte delle proprie riserve di denaro nel sostegno alle loro stesse economie, ugualmente in affanno. L’aumento incontrollato del deficit di bilancio americano, in ogni caso, rischia di compromettere gli eventuali effetti benefici a lungo termine delle misure di intervento del governo. Una stretta anticipata dei cordoni della borsa per esigenze di bilancio – determinata dalle prevedibili pressioni di parte repubblicana e dei democratici più moderati – potrebbe infatti rallentare la ripresa economica e produrre una nuova recessione, come accadde nella seconda metà degli anni Trenta, quando Roosevelt fu tentato dal perseguimento del pareggio di bilancio.

Assistenza sanitaria. A detta di molti, l’attesissima riforma dell’immorale sistema sanitario americano sarà uno dei punti di più difficile realizzazione del pur ambizioso programma elettorale di Barack Obama. Nel corso delle primarie democratiche, il neo-presidente e Hillary Clinton avevano assunto posizioni leggermente diverse sulla questione dell’allargamento della copertura sanitaria. Entrambi erano d’accordo sulla necessità di provvedere ai 45 milioni di americani senza assicurazione, anche se Obama aveva assunto una atteggiamento meno radicale, rinunciando cioè a rendere obbligatoria per i cittadini la stipula di una polizza sanitaria. Il compito di mettere mano alla riforma è stato affidato all’ex senatore e lobbista del South Dakota Tom Daschle, diventato negli ultimi anni uno delle massime autorità sui temi della politica sanitaria.

Cercando di evitare le trappole e i passi falsi dell’amministrazione Clinton, che vide morire la propria proposta di riforma sanitaria nel 1994, Daschle sarà chiamato a costruire un ampio consenso in un Congresso – e in un paese – ancora in buona parte diffidente di un sistema assistenziale pubblico gestito dal governo. L’ampia maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti e quella, più ristretta, al Senato, il consenso tra gli elettori di cui gode Obama agli albori del suo primo mandato e, soprattutto, il cambiamento di attitudine nei confronti del ruolo dello stato nell’erogazione dei servizi assistenziali potrebbero tuttavia rendere meno ostico il cammino verso un sistema di copertura universale.

Nonostante i suoi precedenti di consulente legale al servizio di alcune grandi compagnie operanti proprio nell’ambito dell’industria sanitaria, il nuovo segretario alla Salute e ai Servizi Umani ha chiarito da subito la sua intenzione di voler intraprendere una strategia basata sulla cosiddetta “single-payer health care”. La fornitura dei servizi sanitari basilari dovrebbe essere cioè finanziata da un unico fondo, gestito appunto dal governo, al contrario dell’attuale sistema in gran parte volontaristico e basato su assicurazioni private, spesso inaccessibili. Anche in questo ambito un ruolo fondamentale potrebbe essere svolto dalle questioni di bilancio. Qualsiasi nuova riforma infatti dovrà avanzare di pari passo con una razionalizzazione dell’intero sistema, gravato dalle eccessive e sempre crescenti spese causate dai programmi federali come Medicare e Medicaid.

Medio Oriente. Il recentissimo conflitto riesploso a Gaza ha ricordato all’intera comunità internazionale il pressoché totale disinteresse mostrato da George W. Bush e dalla sua amministrazione uscente per una risoluzione pacifica della questione israelo-palestinese. A parte la ormai fallita conferenza di pace di Annapolis dell’autunno 2007 – dove le parti si erano impegnate a trovare un accordo per la creazione di uno stato palestinese entro la fine del secondo mandato di Bush – l’iniziativa americana negli ultimi anni si è risolta in un quasi totale appiattimento sulle azioni israeliane. L’accoglienza del nuovo presidente in Israele e in Palestina è stata finora caratterizzata da una certa cautela, riflesso della circospezione con cui Obama si è finora espresso – o non espresso, per quanto riguarda la guerra a Gaza – sul conflitto chiave del Medio Oriente.

Il tradizionale appoggio ai democratici manifestato dagli ebrei-americani dopo l’iniziale perplessità nei confronti di un presidente di colore di padre keniano, nonché la scelta ricaduta su Hillary Clinton per il Dipartimento di Stato e le posizioni del vicepresidente Biden, suggeriscono che difficilmente la corsia preferenziale riservata a Israele verrà abbandonata. I tradizionali buoni rapporti della ex first lady con Gerusalemme, secondo alcuni, le permetterebbero invece un confronto più serrato proprio con il governo israeliano per il raggiungimento di un accordo duraturo. Obama da parte sua ha talvolta manifestato posizioni relativamente più conciliatorie anche nei confronti di Hamas, con cui tuttavia la possibilità di un qualche dialogo è legata a doppio filo alla crescente influenza di Siria e, soprattutto, Iran su tutta l’area mediorientale.

Iraq. Pur vincolando i suoi piani ad un assestamento della situazione sul campo, Obama non ha ancora rinunciato apertamente al suo piano iniziale di ritiro di (quasi) tutte le truppe americane dall’Iraq entro 16 mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca. A sostegno della strategia del nuovo presidente era giunto sul finire dello scorso anno l’accordo approvato dal parlamento e dal governo iracheni per il completamento del ritiro statunitense entro la fine del 2011. I vertici militari tuttavia hanno recentemente prospettato la possibilità di anticipare l’obiettivo di un anno, mostrando un inaspettato avvicinamento ad Obama. Il ritiro dall’Iraq dovrebbe essere una mossa decisiva per incrementare le forze da spiegare su quello che Obama ritiene il vero e unico obiettivo della guerra al terrorismo, l’Afghanistan.

Afghanistan. Nonostante secondo il parere di molti osservatori il conflitto in Afghanistan abbia intrapreso ormai una direzione molto difficilmente reversibile per gli Stati Uniti, rimane ferma l’intenzione di Barack Obama di concentrare lo sforzo bellico su questo martoriato paese. Il maggior impegno in Afghanistan è visto a Washington come indispensabile per spegnere la resistenza talebana e la guerriglia di Al Qaeda arroccata nelle regioni di confine con il Pakistan.

Il tutto tramite una possibile riproposizione della strategia (“surge”) che a partire dall’inizio del 2007 aveva permesso di stabilizzare la situazione irachena. L’Afghanistan segnerà probabilmente anche il primo elemento di contrasto tra l’amministrazione Obama e i partner nella NATO, i cui governi appaiono ben poco disposti ad intensificare il proprio sforzo in questo paese.

Le effettive possibilità di miglioramento in Afghanistan dovranno anche e soprattutto passare attraverso una strategia tesa al ristabilimento della situazione interna al Pakistan – e di conseguenza dell’abbassamento dei toni del confronto di questo paese con l’India, così da concentrare le proprie forze nelle aree tribali dove imperversano i Talebani – e, compito forse ancora più arduo, a porre fine alla corruzione diffusa ad ogni livello del sistema statale afgano e al rovinoso sistema clientelare colpevolmente messo in piedi dall’amministrazione Bush nell’ambito di una mai avviata ricostruzione del paese.

Iran e Corea del Nord. La capacità di confrontasi con questi due stati e di giungere ad un compromesso circa i rispettivi programmi legati alla produzione di armi nucleari sarà un banco di prova fondamentale per il nuovo approccio annunciato da Obama alle questioni internazionali. Una condotta, almeno sulla carta, diametralmente opposta a quella adottata da George W. Bush e dai falchi della destra repubblicana – centrata su una rigida contrapposizione nei confronti dei paesi inclusi nell’asse del male – e dettata piuttosto da un confronto diplomatico senza condizioni preliminari, lasciando una soluzione militare solo come extrema ratio.

I toni adottati da Obama nei confronti dell’Iran sono stati negli ultimi mesi piuttosto ambivalenti. Il programma nucleare del paese degli Ayatollah è stato fatto bersaglio talvolta di una durissima critica, prospettando nel contempo la possibilità di un intervento armato in caso di minaccia concreta alla sicurezza di Israele o agli interessi americani in Medio Oriente; altre volte invece – e più recentemente nel corso di un’intervista rilasciata alla ABC – il nuovo presidente ha ribadito la sua intenzione di adoperarsi per un miglioramento delle relazioni diplomatiche con il governo iraniano, pur nell’ambito di un abbandono da parte di quest’ultimo del proprio cammino verso il nucleare.



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