Nel gergo i signori della guerra le chiamano “Matrioske” come se fossero un gioco per bambini. Sono le bombe a frammentazione o a grappolo (appunto: cluster bomb) che rilasciano sul terreno centinaia di ordigni minori (mine antiuomo o granate esplosive) che tra il 10 e il 40% non esplodono e restano cariche per anni sul terreno. Gli esperti militari dicono che dopo lo sgancio la bomba ruota a causa dell’aria che passa nelle alette di coda. Progettate per distruggere un’ampia gamma di obiettivi terrestri, possono perforare spessori di 250 mm. dopo che la rotazione provoca l’apertura dell’involucro esterno e il rilascio delle granate. Ognuna delle quali è dotata di un paracadute che assicura un angolo di attacco più preciso. Le “cluster” possono essere lanciate da aerei tattici bombardieri d’alta quota: sono progettate per esplodere in 300 frammenti. Ma la detonazione non può verificarsi se la bomba non colpisce una superficie dura.
Questa, in sintesi, la tragica tecnologia di questi strumenti di morte che ora a Dublino - nel corso di una conferenza internazionale - vengono messi sotto processo. E sul banco degli imputati, in primo luogo, si ritrovano i “produttori” che hanno le loro basi industriali in 34 paesi e che inviano la loro “merce” in 75 nazioni, in ogni parte del mondo. E così le “cluster” figurano negli arsenali di paesi come Italia, Arabia Saudita, Eritrea, Etiopia, Francia, Gran Bretagna, Israele, ex Jugoslavia, Marocco, Olanda, Nigeria, Russia, Stati Uniti, Sudan, Tagikistan. A Dublino si cerca di fare il punto reale della situazione individuando le aziende produttrici e tutto il conseguente sistema di distribuzione a livello mondiale. L’ulteriore passo da fare è quello relativo al raggiungimento di un accordo sulla proibizione totale delle “Cluster”. E questo tenendo anche conto del fatto che c’è già un precedente relativo alla messa fuori legge delle mine anti-uomo che fu raggiunto nel 1997.
Ci fu, infatti, una campagna appoggiata anche da diversi governi nazionali (in particolare, quello canadese) che portò alla definizione del Trattato di Ottawa che vietava l’uso, l’immagazzinamento, la produzione e la vendita di mine anti-uomo, che venne firmato dalla maggior parte delle nazioni. E qui va ricordato che nel 1997, al leader dell’iniziativa, Jody Williams, fu assegnato il Nobel per la Pace. Ma tra i paesi che non aderirono al Trattato ci furono allora Stati Uniti, Israele, Finlandia, Russia, Cina, India e Corea del Nord. Alcune di queste nazioni aderirono per motivi specifici formulando impegni alternativi, che ponevano restrizioni all’uso delle mine terrestri anti-uomo senza abolirle del tutto.
A Dublino (nello stadio Croke Park ci sono i rappresentanti di circa 100 paesi) si torna alla carica evidenziando che i micidiali ordigni “a grappolo” provocano la morte - anche oggi - tra i bambini di ogni parte del mondo attratti dai quei cilindretti e da quelle palline che ricordano colorati giocattoli. E a tutti è ricordato (nel quadro di una campagna generale che ha come obiettivo quello di bloccare l’uso, la produzione e lo stoccaggio delle bombe a grappolo) che questi ordigni, una volta lanciati si aprono e sganciano su un’area molto vasta centinaia di spezzoni più piccoli che, in molti casi (tra il 10 e il 40%), non esplodono e creano così dei veri campi minati assai estesi, di cui fanno le spese 98 volte su 100 civili inermi e che rendono per anni impraticabili vaste aree. Inoltre, gli ordigni sono costruiti in modo tale da rendere impossibile l’impiego dei mezzi meccanici di sminamento e, spesso, anche dei cani appositamente addestrati.
Ed è in questo contesto di aspre denunce che a Dublino si leva la voce di Grethe Ostern, capo della Cluster Munitions Coalition (CMC), una Ong che si batte per il bando delle cluster. “I governi - dice - parlano dei pericoli di queste bombe da anni. Altri ritardi significano nuovi morti e feriti. Qui a Dublino abbiamo la possibilità di metterle al bando. Ora o mai più». La strada sembra però in salita: molte importanti nazioni che ne fanno utilizzo o le detengono in grande quantità – come Usa, Israele, Russia, Cina, India e Pakistan – non partecipano (e fanno propaganda attiva per il no), molti altri – Gran Bretagna in testa – vogliono annacquare il Trattato. Ma anche Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Olanda, Svezia, Svizzera e Brasile chiedono di emendare il documento per escludere qualche tipo di bomba (i produttori sostengono che le più moderne siano meno dannose), per ottenere più tempo per smantellare gli arsenali, per introdurre periodi di transizione in cui le cluster bomb siano ancora legali”.
Intanto i paesi e le organizzazioni che promuovono la campagna per il divieto sperano che una firma di decine di altri Paesi faccia pressione morale sugli assenti, come avvenne per le mine-antiuomo, riducendone comunque l’uso. Le bombe a grappolo hanno causato più morti tra i civili in Kosovo nel 1999 e in Iraq nel 2003 che qualsiasi altra arma, ricorda il Cmc (sono almeno 11mila i non combattenti colpiti negli ultimi decenni). Molti mini-ordigni in cui si frammenta il contenitore principale continuano a esplodere e mietere vittime anni dopo la fine delle guerre: dopo il cessate il fuoco, si stima che in Libano vi siano state 200 vittime saltate sulle bombe a grappolo israeliane lanciate nell’offensiva del 2006. Quella di Dublino è quindi l’ultima tappa del Processo di Oslo: 50 organizzazioni non governative e 46 Stati, tra cui l’Italia, nel febbraio 2007 aderirono nella capitale norvegese a una dichiarazione nella quale si impegnavano a "concludere entro il 2008 uno strumento internazionale vincolante". Un incontro di avvicinamento si è poi svolto in febbraio in Nuova Zelanda, dove 122 nazioni hanno cercato un primo sì al divieto. Che dovrebbe ora diventare definitivo.
Alle denunce avanzate a Dublino fa eco Kostas Moschochoritis, direttore generale di Medici Senza Frontiere, che parla dell’Afghanistan ricordando che: “Nel 2002, ai tempi dell’intervento americano, le truppe dell’alleanza anti-talebana paracadutavano i viveri per la popolazione civile in contenitori di colore giallo. Ma i bombardieri sganciavano bombe a grappolo dello stesso colore. E poiché una discreta percentuale rimaneva inesplosa, molti civili non combattenti, soprattutto bambini, erano ingannati. Si avvicinavano perché speravano di trovare cibo e rimanevano orribilmente mutilati o uccisi. Questa situazione si riproduce in tanti altri paesi colpendo migliaia di persone. Dal punto di vista sanitario per chi sopravvive si aprono problemi gravissimi”.
C’è poi la testimonianza della studiosa Benedetta Verrini, che nel suo volume “Armi d’Italia”, rileva che dal 5 al 10% delle bombe a grappolo rimane inesplosa quando tocca il suolo. Nel solo 2003 le truppe angloamericane sganciarono sull’Iraq circa 13mila bombe cluster, contenenti un numero di sub munizioni compreso tra 1,8 e 2 milioni. E poiché il libro in questione affronta il rapporto che l’Italia ha con le cluster rileviamo subito - prendendo le pagine che si riferiscono al nostro paese - che queste sarebbero prodotte da alcune aziende di casa nostra.
Ma se si parla di bombe a grappolo che colpiscono in gran parte i bambini si deve evidenziare l’altra piaga. Quella relativa alle decine di migliaia di bambini soldato utilizzati dai gruppi armati non governativi di ventiquattro Stati e territori, ma anche di nove eserciti regolari. Dati impressionanti messi ora in luce dal rapporto 2008 della campagna internazionale "Stop all'uso dei bambini soldato!", presentato in questi giorni in contemporanea in numerose capitali del mondo.
Con oltre quattrocento pagine su leggi, politiche e prassi in materia di arruolamento di minori, il rapporto è la rassegna più ampia e completa sulla dimensione del fenomeno su scala mondiale. La campagna, alla quale aderiscono associazioni e Organizzazioni non governative di tutto il mondo, compie anche un'opera di monitoraggio e di promozione del trattato internazionale firmato il 12 febbraio 2002, ufficialmente un protocollo addizionale alla Convenzione dei Diritti del Fanciullo, nel quale si stabilisce che gli Stati aderenti non possono impiegare nei conflitti armati i minori di 18 anni. C’è, comunque, una grande confusione e una scarsissima comprensione per quanto si registra nel mondo delle guerre.
Il rapporto, giunto a quattro anni da quello precedente, documenta che in tale periodo sono stati registrati anche dei progressi e dei miglioramenti. Ad esempio, il numero dei conflitti che vede impiegati bambini soldato è passato dai ventisette in atto alla fine del 2004 ai diciassette della fine del 2007. Inoltre, migliaia di bambini soldato sono stati rilasciati da eserciti e gruppi armati via via che i conflitti cessavano, in particolare nell'Africa subsahariana. Tuttavia, come detto, il rapporto documenta che decine di migliaia di minori restano nelle file di gruppi armati non governativi in almeno 24 Paesi e territori, mentre per quanto riguarda gli eserciti regolari il miglioramento è minimo. Sono, infatti, ancora nove i Paesi che impiegano minorenni in azioni di guerra, a fronte dei dieci documentati dal rapporto del 2004. Inoltre, in almeno quattordici Paesi, bambini sono stati reclutati in truppe di supporto all'esercito regolare o in gruppi di civili costituitisi su base locale per sostenere operazioni antisommossa o ancora in milizie illegali o gruppi armati fiancheggiatori degli eserciti regolari. Va aggiunto che alcuni Governi hanno arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso bambini sospettati di far parte dei gruppi di opposizione armata.
Non è poi infrequente il ricorso da parte di eserciti governativi all'impiego di bambini come spie o informatori. Ancora più grave è la sorte dei bambini associati a gruppi armati e che in caso di cattura sono imprigionati e trattati come nemici belligeranti dagli eserciti governativi, anziché ricevere l'assistenza loro dovuta in base al diritto internazionale, in quanto vittime prima che autori, comunque non responsabili, di violenze. Ne consegue che i miglioramenti registrati siano da attribuire solo al contesto generale, cioè alla fine di diversi conflitti. In ogni caso, sono i gruppi armati non governativi a rappresentare il problema maggiore e la maggiore sfida per la comunità internazionale. Dai vari rapporti che si conoscono, infatti, emerge che le leggi internazionali hanno avuto un impatto assai limitato nel dissuadere dall'impiegare bambini.
Anche quando i conflitti sono terminati, la maggioranza dei bambini soldato non riesce ad usufruire dei programmi di disarmo, smobilitazione e reinserimento (Ddr), inizialmente pensati solo per gli adulti e che nel 1997 furono formalmente estesi anche ai bambini. Particolarmente penalizzate risultano le bambine, la cui presenza in eserciti e gruppi armati è nota fin dagli anni Novanta, sia con ruoli da combattenti sia in condizioni di vera e propria schiavitù sessuale: sottoposte a violenze e ad abusi sistematici. Il rapporto diffuso ora da "Stop all'uso dei bambini soldato" rileva che la maggior parte di queste bambine non viene identificata e registrata nei programmi ufficiali di smobilitazione. Secondo le stime del rapporto, a tali programmi riescono ad accedere appena tra l'8 e il 15 per cento di queste bambine. Nelle conclusioni del rapporto, si chiede ai governi di bandire ogni forma di reclutamento di persone al di sotto di 18 anni nelle forze armate - come accade ancora in 63 Paesi - e di dare piena attuazione al trattato delle Nazioni Unite sui bambini soldato, giudicato uno strumento utile per ridurre il numero dei bambini nei conflitti. Intanto le violenze, come “programma”, continuano.
A DUBLINO PROCESSO ALLE CLUSTER BOMB
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