Gli avvenimenti degli ultimi giorni in Sudan hanno avuto una scarsa eco sui media, ancora meno a livello politico o tra i tanti personaggi che in questi anni si sono recati in pellegrinaggio in Darfur per apparire sulle televisioni di Roma, Parigi o Los Angeles. Uno dei principali gruppi di opposizione locale in Darfur ha attaccato la capitale del Sudan; un attacco robusto con centinaia di automezzi armati, che però è stato affrontato e sconfitto dall'esercito regolare. I militanti del JEM (Justice and Equality Movement) hanno così conseguito due disastrosi risultati in un colpo solo: la perdita della loro capacità militare e la distruzione della narrazione che vede le popolazioni del Darfur in balìa di un governo impazzito. Con lo status di vittime hanno perso molto più di qualche centinaio di uomini e mezzi.
Succede spesso quando si parla di Sudan che ineffabili paladini dell'Occidente s’indignino a comando attribuendo responsabilità trasversali alla Cina, colpevole di fare affari con il governo di Khartoum, che è colpevole di aver terrorizzato e massacrato le popolazioni del Darfur. Responsabilità solari quelle del governo sudanese, indiscutibili, ma non altrettanto si può dire di quelle cinesi. In questo caso scontiamo la necessità di dirci migliori, il più classico suprematismo culturale che trova sublimi interpreti come l'acclamato Bernard Henry Levy, impegnato incessantemente a costruire una narrazione di fantasia per dirigere l'indice della pubblica indignazione contro cinesi e musulmani. Per BHL e quelli come lui ad un certo punto la questione del Darfur è diventata l'Eldorado: l'occasione di poter accusare allo stesso tempo un governo “islamico” e un regime “nemico dei diritti umani” che fa affari con il cattivo di turno.
Peccato che l'Islam nella disputa entri pochissimo. Tanto poco che da un lato abbiamo il JEM di ispirazione islamista e dall'altra il leader al-Bechir, che con gli islamici è in rotta da tempo; tanto che la sua prima reazione all'attacco è stata quella di porre agli arresti Hussain al-Turabi. Questi fu suo compagno nel golpe che lo portò al potere alla fine degli anni '80, poi la mente delle sinergie sudanesi con al-Qaeda e con Osama Bin Laden, fino a quando al-Bechir, emulo di Musharraf di fronte all'aggressività degli USA nel post 11 Settembre, decise che era giunto il tempo di allearsi con gli Stati Uniti e di buttare a mare gli islamisti; per la precisione di buttarli in galera, dove gli uomini dei suoi servizi segreti hanno estorto loro preziose informazioni per la War on Terror; almeno così ha affermato pubblicamente la CIA.
Questo cambiamento d'alleanze ha fatto molto bene al Sudan e al suo leader e ha portato alla fine della sanguinosa guerra tra Nord e Sud del Paese, anch'essa impropriamente rappresentata come un conflitto tra feroci saladini che calavano a Sud a schiavizzare gli inermi cristiani. Favole per beghine, buone da raccontare nelle parrocchie per raccogliere soldi con i quali pagare armi contrabbandate alla faccia degli embargo. La storia è finita con uno accordo per il quale il petrolio estratto nel Sud raggiungerà il mare passando attraversi l Nord e il ricavato sarà diviso a metà. In pochi anni il Sudan è così diventato la nuova mecca del petrolio africano, cosa che però non sarebbe stata possibile se dietro alla pace non vi fosse stato un vero e proprio accordo-quadro per lo sfruttamento del petrolio sudanese. Una buona metà del petrolio sudanese finisce in Cina, che nel paese opera con una società in Joint venture con la britannica BP, il resto in India ed Europa.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se, con il placet di tutti i paesi interessati, un esercito di settecentomila cinesi non avesse sputato sangue per costruire un lunghissimo oleodotto in mezzo al nulla, porti imponenti, strade e tutte le infrastrutture senza le quali il petrolio non avrebbe trovato la strada per il mare. Mente si stavano siglando gli ultimi accordi per la pace Nord-Sud, che oltre alla spartizione degli utili prevedono un governo in tandem tra Nord e Sud e la possibilità per questo di tenere un referendum secessionista, è scoppiata la tragedia del Darfur.
Ora come allora gruppi armati mossero dal Darfur in un attacco senza speranza, dissero all'epoca per richiamare l'attenzione sull'abbandono nel quale versava quella parte del paese. Solo molto tempo dopo che l'esercito sudanese ebbe respinto l'attacco e poi armato briganti ed etnie con antichi conti da regolare, provocando la pulizia etnica di un'area vasta come la Francia (duecentomila morti e due milioni di profughi), ma soprattutto solo dopo che gli accordi furono tutti messi nero su bianco, all'Occidente fu concesso di accorgersi della tragedia per voce dei soliti tromboni che gridavano alla brutalità musulmana dei terribili janjweed.
Da allora non è cambiato molto. Gli abitanti del Darfur vivono ancora nei campi e i tentativi di dialogo sono sempre naufragati, perché all'ultimo spuntava sempre un gruppo del Darfur a dichiarare inaccettabile qualsiasi soluzione. Il governo sudanese non ha oggi alcun interesse a tormentare il Darfur, dove tra l'atro c'è petrolio che attende di essere estratto: Ha condannato qualche elemento troppo zelante, ha accettato una forza dell'Unione Africana sul suo territorio e pare seriamente intenzionato a porre una fine alla questione, una vera e propria operazione di riverginazione, come già successo per Gheddafi e per altri leader con passati e presenti più che discutibili.
Questa è metà della storia, l'altra metà comincia al di là del confine tra Sudan e Ciad, nel regno di un dittatore da operetta mantenuto al potere da francesi ed americani. Idrissi Deby Itno è appena scampato a un tentativo di golpe perfettamente speculare all'attacco a Karthoum; si è salvato solo per l'aiuto illegale ricevuto dai francesi, che nei trattati per la decolonizzazione si erano vietati interventi armati nella politica interna del paese, e che hanno trascinato in Ciad anche l'Unione Europea con il pretesto della protezione dei profughi del Darfur. Utile è anche sapere che il JEM è guidato da un suo ex-fedelissimo della sua Guardia Presidenziale e che da tempo Deby accusa il Sudan di voler destabilizzare il suo governo, ricevendo in cambio identiche accuse.
Ricostruzione abbastanza interessata, essendo il popolo del Ciad il principale nemico del presidente, assolutamente impopolare e abbandonato da fedelissimi e anche dai familiari; l'ultima ondata di attacchi alla capitale con conseguente assedio al palazzo presidenziale è arrivata da tutte le direzioni, non solo da Est. Come in un racconto scritto male, la storia ci consegna anche situazioni in fotocopia per tre paesi adiacenti. Al-Bechir aiutò l'ascesa al potere di Idriss Deby Itno, il quale come lui a un certo punto cominciò ad essere molto ostile ai musulmani, più o meno dopo il 9/11.
Deby a sua volta aiutò il golpe di Francois Bozizè, ora “presidente” della Repubblica Centrafricana e stimato protetto della Francia.
I tre presidenti golpisti hanno molto in comune, tutti e tre sono stati attaccati militarmente, tutti e tre hanno reagito male desertificando gran parte dei loro territori e inducendo milioni di persone alla fuga. Se il governo sudanese non ha avuto bisogno di aiuto, data la natura velleitaria degli attacchi, non altrettanto si può dire degli altri due, che avevano contro gran parte della popolazione ed erano rimasti praticamente senza eserciti, in gran parte ammutinati, tanto da dover arruolare soldati-bambino. Ad aiutarli ha pensato la Francia in prima fila, seguita con occhio attento da Washington. Dai campi petroliferi del Ciad parte infatti un altro lungo oleodotto, costruito con i soldi della Banca Mondiale. L'oleodotto ha un percorso tortuoso e arriva al Golfo di Guinea dopo aver deviato per attraversare le regioni francofone del Camerun. Una specie di garanzia per Parigi, che in Ciad è presente con TOTAL accanto all'americana EXXON.
L'oleodotto potrebbe rappresentare un via per il petrolio del Darfur, ma più semplicemente gli interessi dei grossi player occidentali hanno il loro baricentro in Ciad ed è normale che quindi si sorvoli sui massacri di Deby e Bozizé e che per farlo si punti il dito il più lontano possibile: alla Cina. Che comunque ha concessioni anche in Ciad e non sembra per nulla interessata ad intervenire nelle dispute interne africane. Francia ed Stati Uniti invece non fanno altro da sempre e con l'aiuto della Gran Bretagna continuano a condizionare pesantemente la politica africana, fornendo indiscriminato sostegno alle più impresentabili dittature e scambiando armi e appoggio politico in cambio di materie prime. Armi da impiegare in conflitti spesso scatenati ad arte, anche su questo c'è un'estesa letteratura figlia di una casistica più che provata e ammessa dagli stessi protagonisti.
Conflitti che poi provocano milioni di morti e che non importano a nessuno, se non a qualche svampito in cerca di una “photo-opportunity” purché sia, o quando possano essere cinicamente manipolati per prendere in giro i puri di cuore che vivono nelle società opulente, contenti con il poter dire di aver fatto qualcosa contro il male, magari mandando un SMS.
I motivi dell'attacco del JEM, la figura del suo leader, quella di al-Turabi (arrestato e poi rilasciato per l'ennesima volta), la storia sudanese come quella dei paesi vicini, non saranno minimamente oggetto di analisi o discussione, figurarsi modi e maniere della grande corsa all'oro nero e alle materie prime africane; ma lo specchio ormai si è rotto definitivamente.
Resterà qualche desperado nella remota provincia Italia che nemmeno si è accorto di quanto è successo nei giorni scorsi, qualcuno degli abbonati all'umanitarismo allineato come nemmeno i marines, a puntare il dito verso Pechino o contro l'Islam, ma ormai lo specchio che separava la realtà in Darfur dal mainstream informativo sembra essersi rotto, visto che l'attacco ha attirato l'attenzione internazionale e portato alla luce più di un segreto altarino, compreso lo strano sostegno americano agli “islamici” del JEM. La partita attorno al Sudan, il più vasto paese africano disegnato dalla decolonizzazione britannica, la giocano in tanti; in prima fila ci sono anche il dittatore libico Gheddafi, quello egiziano Mubarak e quello etiope Zenawi, per non parlare del grottesco Museweni dall'Uganda e di altri personaggi di secondo livello, ma non di secondaria importanza come il cristianissimo Joseph Kony e il suo Esercito di Liberazione del Signore. Ciascuno sponsorizza ora questo ora quel signorotto tribale o leader improvvisato, promuove la pace a parole mentre distribuisce armi sottobanco agli amici.
Ci sono in gioco porzioni di territorio grandi come i maggiori paesi europei e le risorse che contengono, assetti strategici, le rotte del petrolio, rivalità storiche e personali e attorno al grande Risiko sono seduti i peggiori faccendieri di livello ad assistere un Occidente liberista che affronta i mercati in tempesta con lo strumento più statalista che ci sia: le forze armate inviate ad addestrare e “consigliare” e a promuovere la produzione bellica.
Evidentemente nessun governo occidentale riesce ad accettare il principio della non-ingerenza quando sente il profumo dei soldi o quando intravede la possibilità di assicurarsi corsie preferenziali per lo sfruttamento. Evidentemente di contrastare l'avanzata cinese in Africa pagando le materie prime in regime di concorrenza non è ancora venuto in mente a nessuno, ma questo è perfettamente coerente con la considerazione per la quale queste -devono- andare dove stanno le produzioni e dove c'è domanda e non dove astuti volponi attendono di lucrare rendite di posizione infondate. In un regime di libera concorrenza andrebbero comunque dove la domanda è più forte e dove lo stesso Occidente ha localizzato i propri investimenti produttivi, lontano dai grandi centri della finanza occidentale.
Controllare i flussi delle materie prime permette guadagni enormi, ancora di più nell'incombenza della penuria strutturale delle stesse. Nel ventunesimo secolo l'Occidente è ancora impegnato nella sottomissione e sfruttamento di interi paesi come lo era un secolo fa. Un tempo esercitava il dominio coloniale diretto attraverso agenti commerciali, militari e sacerdoti, adesso lo fa cooptando al governo di questi paesi conclamati nemici dei loro popoli, dittatori grotteschi e sanguinari, caricature umane che bruciano le ricchezze e le vite dei propri amministrati-dominati. Se in gran parte delle “democrazie” africane il processo elettorale è una farsa che conferma dittature ultra-decennali quanto impresentabili e se tutto l'Occidente le riconosce invariabilmente come rappresentanze democratiche, qualcosa vorrà dire.
Come vorrà dire qualcosa se in televisione non appare mai la denuncia di un sanguinario dittatore africano e nemmeno qualche sua vittima, almeno fino a che non diventa sgradito all'Occidente, come nel recente caso del delirante Mugabe. Il giocattolo Darfur si è rotto, per terra restano centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi in fuga da tre paesi, due dei quali devastati completamente allo sbando. Aspettiamo fiduciosi le prossime esibizioni di BHL e dei suoi amichetti, per sapere con cosa giocheremo prossimamente.
DARFUR: L'AGGRESSIONE TACIUTA
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