“Non aspiro né accetterò - ripeto, non aspiro né accetterò - la carica di Presidente del Consiglio di Stato e di Comandante in capo". Due righe, poche parole, per interrompere definitivamente la storia. Fidel Castro Ruz, Presidente di Cuba da quando Cuba merita di avere un Presidente, in una lettera ai suoi “compatrioti”, lascia i suoi incarichi al vertice del Paese. Si tratta di una decisione che, per quanto di grande valore simbolico, in qualche modo era già nell’aria da qualche tempo. Le condizioni di salute del lider maximo, da molti ritenute la causa principale delle dimissioni di Fidel, hanno rappresentato l’ostacolo maggiore per rimettere al suo posto di comando un leader che ha sempre guidato il suo Paese a tempo totale e con dedizione assoluta. Ma le condizioni fisiche di Fidel non sembrano però essere l’unico motivo che ha fatto da sfondo a questa scelta. Da molto tempo, infatti, nei progetti più importanti del Comandante en jefe vi era quello di garantire la sua transizione da vivo, conscio di quanto la sua eventuale mancanza avrebbe sconcertato il Paese, il suo popolo, l’intero gruppo dirigente. E Cuba, com’è ovvio, non può permettersi vuoti di potere: almeno finché il suo acerrimo nemico, che riempie di infamie e minacce, provocazioni e terrorismo, corruzione ed ingerenze il tratto di mare che lo separa dall’isola dell’orgoglio, non accetterà le lezioni della storia e del diritto internazionale. No, davvero: il regalo agli Stati Uniti di un possibile clima di sbandamento sociopolitico nell’isola, Fidel non voleva farlo. Mai del resto, dai giorni sulla Sierra Maestra nei quali combatteva la dittatura e progettava la dignità di Cuba e dei cubani, Fidel aveva mai scambiato trasparenza per ingenuità. E dal 1° gennaio del 1959, quando Cuba insegnò al mondo che liberarsi, oltre che giusto, è possibile, il leader cubano seppe con assoluta precisione quanto grande fosse il pericolo dell’impero alle porte, quanto attenta ai minimi dettagli dovesse essere la resistenza.
Sarà ora il Parlamento appena eletto, il prossimo 24 Febbraio, a decidere chi promuovere nel ruolo – non certo nel livello – lasciato libero da Fidel. La sua uscita di scena apre il percorso di rinnovamento dell’intero gruppo dirigente cubano, che dovrà trovare nella sua unità l’unico possibile rimedio all’assenza dell’irrinunciabile. Con le sue dimissioni da ogni incarico ai vertici dell’isola, si chiude però un capitolo, non l’intero libro, della vita di un uomo che ha lanciato il suo mito molto oltre la sua stessa isola. Da giovane sembrava destinato ad una illustre quanto certamente munifica carriera di avvocato. Figlio di famiglia benestante, doti non comuni di comunicatore dimostrate sin da giovanissimo, Fidel Castro Ruz dovette però rapidamente ricredersi circa il suo futuro. La dittatura di Fulgencio Batista, un sanguinolento sergentino di terza fila promosso a capo di un paese molto più intelligente di lui, bruciava le carni dell’isola. Lo aveva messo sul ponte di comando la mafia italo-americana, che di Cuba era signora e padrona e che aveva trasformato la perla delle Antille nel suo postribolo preferito per i week-end, dove scaricava i suoi avanzi di Miami dopo un brevissimo volo a bordo di Piper. Cuba era prostituzione e gioco d’azzardo per gli americani, inferno di repressione e schiavismo per i cubani.
Quel giovane, promettente avvocato, dovette assumere su di sé la causa più impegnativa della sua vita: quella della libertà e del riscatto del suo paese e della sua gente. Un cammino lungo, difficile, ma alla fine vittorioso. Il 1 gennaio del 1959, gli ultimi diventavano i primi: il calendario cambiava anno, Cuba cambiava il suo destino.
L’America Latina subisce, tra le altre disgrazie, il fastidio di un lessico eurocentrico che nel caso di Cuba, ma più in generale dei paesi che si liberano dal giogo statunitense, è sempre aggressivo e offensivo. In tutti i paesi europei - o comunque occidentali dal punto di vista dello schieramento economico-politico - le figure politiche che per decenni solcano la scena vengono definite “statisti”. Che siano effettivamente tali è tutto da dimostrare, soprattutto se si declina l’aggettivo in coerenza con il loro operare. Ma tant’è: le definizioni variano da “politico di grande esperienza” (se non ha mai governato) o “statista” (se nelle stanze dei bottoni c’è arrivato). Nel caso dell’America Latina, invece, quando una figura politica assume la guida del Paese e la mantiene contro il volere di Washington, lo si definisce un “caudillo”. Proprio nei confronti di Fidel Castro l’aggettivo di “caudillo” è stato spacciato in lungo e largo. Eppure, se proprio si vuole rintracciare una figura da “statista”, nessuno più di lui lo è stato e lo è tutt’ora.
Fidel e Cuba sono in qualche modo due facce della stessa medaglia. Difficile leggere Cuba a prescindere dal ruolo di Fidel, impossibile analizzare Fidel a prescindere da Cuba. Fidel ha cambiato Cuba dalle fondamenta. Ne ha disegnato il profilo ideologico e culturale, ha definito il suo assetto politico e sociale, ha costruito e difeso la sua immagine internazionale. E’ stato uno statista a trecentosessanta gradi e ben lo sanno negli Stati Uniti, dove oltre una decina di Presidenti e una ventina di direttori della CIA hanno inutilmente tentato di scalzarlo con le cattive. Non si sono fatti mancare niente: dalla guerra commerciale a quella batteorologica, dall’isolamento diplomatico agli attentati terroristici, dalla campagne denigratorie alle minacce militari. Oltre seicento attentati programmati solo per eliminarlo. Ma Fidel è ancora al suo posto.
A difendere la sua vita e il suo ruolo, prima ancora che una intelligence cubana attenta e capace, ha giocato un ruolo decisivo il rispetto e l’affetto che il popolo cubano nutre nei confronti del Comandante en jefe, considerato un padre della Patria prima ancora che dello Stato. Persino coloro che nell’isola si definiscono critici con il sistema non consentono nessuna mancanza di rispetto alla sua figura. Si se entera Fidel - se lo viene a sapere Fidel - è stata ed ancora è una delle frasi di chi si ritiene danneggiato da inefficienza o indifferenza. Una frase che testimonia un’affidamento del popolo verso il suo leader che è tutt’altro che messianica: è concreta, vigile, attiene all’idea profonda di equità e giustizia, di libertà nella responsabilità con le quali diverse generazioni di cubani sono cresciute.
Del resto la vita stessa del presidente cubano è stata un esempio di abnegazione totale alla causa del suo paese. A differenza della maggior parte dei suoi colleghi latinoamericani, Fidel ha rappresentato l’immagine del capo di un popolo estraneo ad ogni sorta di corruzione, ad ogni livello, mentre nell’intero corso della sua vita lo si è sempre trovato davanti alla prima fila nella difesa della sua isola. Ha diretto la resistenza a Playa Giron come la lotta agli sprechi ed ha saputo proporre Cuba all’attenzione del mondo con i palmi della mani aperte e trasparenti.
Sono sostanzialmente due le grandi opere della Rivoluzione cubana che hanno visto nel suo Presidente l’architetto. La prima è stata quella dell’edificazione della Rivoluzione. Un sistema sociale e politico basato sulla partecipazione popolare, con una sedimentazione profonda del principio socialista nella sua versione latinoamericana. Istruzione, sanità, sport, cultura, servizi sociali garantiti e gratuiti per tutti. Eguaglianza, sì, eguaglianza; parola ormai blasfema nel breviario della omologazione globalizzata sostenuta dal pensiero unico, ma che per Cuba ha significato un destino diverso.
E il ruolo di Fidel è stato decisivo anche nella second life di Cuba, quella seguita al crollo del campo socialista nel 1999. Da un giorno all’altro, infatti, l’85% degli scambi commerciali scomparve. Di colpo, il paese era solo. Ma Cuba seppe invertire il destino che i profeti di sventura avevano previsto. Lontana anni luce dalle concezioni monetariste e dalle sue ricette, l’isola seppe puntare tutte le sue risorse sul mantenimento dei livelli di welfare, grazie all’apertura al turismo che lo finanziò. I sacrifici dei cubani furono notevoli, in particolare dal 1993 al 2000, il cosiddetto “periodo especial”. Fidel decise però che le riforme necessarie per la nuova fase fossero discusse ed approvate da tutte le organizzazioni sociali e politiche del paese. Così avvenne ed il consenso popolare alla nuova fase dell’isola fu la base per quella che è stata la seconda vittoria strategica della Rivoluzione.
Quando Giovanni Paolo II scese a Cuba, Fidel lo accolse con tutti gli onori, ma ebbe la splendida sfrontatezza di ricordare al Papa dove si trovava. A Woytila, che nei suoi discorsi parlava spesso di bambini uccisi e mendicanti, di traffico di organi e di schiavi, di torturati, di senza tetto, di gente che muore di fame abbandonata a se stessa, Fidel gli ricordò che nessuno di essi è cubano. Anzi, Cuba risulta ai primi posti del mondo per aspettativa di vita ed agli ultimi per mortalità infantile. Gli indici di sviluppo determinati dalle Nazioni Unite vedono la piccola e povera isola ai vertici della virtuosità. Questo forse il più grande regalo che la Rivoluzione ha fatto al suo popolo.
Ma Fidel Castro è stato ed è tutt’ora ben più che il leader indiscusso dei circa cinquanta anni della Revoluciòn. La sua personalità, le sue idee e la sua attività politica hanno riguardato - affascinati od ostili – la maggior parte dei governanti del mondo e l’America latina intera ha tributato in diverse occasioni il suo omaggio al Comandante en Jefe. Fidel, d’altro canto, è stato l’asilo ed il rifugio della sinistra latinoamericana che cercava riparo dalle dittature fasciste che l’hanno insanguinata durante gli anni ’60 e ’70. E’ stato un punto di riferimento teorico ed organizzativo, un lottatore instancabile per l’unità latinoamericana, un approdo sicuro per dirimere le controversie politiche, un aiuto decisivo per ripartire e progettare le lotte di liberazione, un sostegno determinante per mantenere in vita le esperienze rivoluzionarie, quella del Nicaragua sandinista prima fra tutte.
Del resto, lo spirito internazionalista di Cuba è sempre stato il fiore all’occhiello del Presidente cubano. Angola, Mozambico, Namibia, Zimbawe, Sud Africa ed Etiopia; i paesi che hanno sconfitto il colonialismo prima e le guerre d’aggressione dirette da Washington e dall’Europa poi, devono ringraziare Cuba. Il sostegno dei combattenti cubani, l’alto prezzo che l’isola di Fidel ha scelto di pagare senza chiedere nulla in cambio, ha lasciato una traccia di nobiltà ed altruismo che nessun altro paese può vantare.
Un impegno che, dopo la fine delle ostilità, è continuato su altri piani. Cuba oggi esporta medici, infermieri, vaccini e libri di scuola. Mantiene un numero di medici negli angoli più remoti del pianeta superiore a quello che fornisce l’OMS e ospita a L’Avana la più grande scuola di medicina del mondo, riservata a tutti gli studenti del sud del mondo che vengono così sottratti all’impossibilità di una vita degna. Diventano medici e, in osservanza alla clausola che ne permette gli studi, tornano ad operare gratuitamente nei loro paesi.
Si diceva che ormai reggeva le sorti dell’isola da quarantacinque anni e che, quarantacinque anni al potere rappresenterebbero la prova di una dinastia, di una impermeabilità al ricambio, insomma di una democrazia incompiuta, come minimo. Chi lo dice dimentica che, per esempio, la famiglia Bush è al governo degli Stati Uniti da venticinque anni, seguiti ad altri cinque, precedenti, ai vertici della Cia. E l’elenco dei paesi che non vedono da decenni un ricambio della loro classe dirigente sarebbe sterminato. Ma nel caso di Fidel, il calendario è in divenire. Quello che è stato ed è, è solo la prima parte. Nella storia di Cuba ed in quella dei latinoamericani, la sua ombra continuerà ad avvolgere, ovunque si trovino, le speranze e le vittorie degli ultimi che provano a diventare i primi.
FIDEL, UNA STORIA STRAORDINARIA
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