di Michele Paris

Arriva da un’inchiesta pubblicata dal New York Times l’ennesimo atto d’accusa contro il traballante sistema sanitario statunitense, questa volta riguardante le difficoltà finanziarie che moltissimi fornitori privati di assistenza ad anziani malati terminali stanno incontrando per sostenere i rimborsi a sei zeri richiesti da Medicare, il programma pubblico di assicurazione sanitaria dedicato agli anziani. Il mancato rispetto di quelle che potremmo definire “tabelle di sopravvivenza” dei malati terminali assistiti, fissate a livello federale, ha portato in numerosi casi allo sforamento del limite di indennizzo garantito da Washington che sta puntualmente recapitando pesanti ingiunzioni di rimborso alle case di cura incapaci di gestire il budget garantito. Inizialmente rivolta agli anziani malati di cancro e con un aspettativa di vita non superiore ai sei mesi, la sezione di Medicare nata nel 1983 a favore delle case di cura, ha dovuto fare i conti negli ultimi anni con l’ampliamento dei destinatari dell’assistenza fornita da queste ultime, sempre più frequentemente - e inevitabilmente - rivolte a pazienti affetti da malattie la cui traiettoria in termini di aspettativa di vita è più difficilmente prevedibile, come ad esempio l’Alzheimer. Proprio questi nuovi assistiti hanno causato, a detta della “Medicare Payment Advisory Commission”, il lievitare delle uscite federali fino ad un totale di 166 milioni di dollari per l’anno 2005 a favore di un totale di 220 case di cura in tutti gli USA. Un problema non da poco per le casse del già malandato programma sanitario pubblico che ha visto triplicare l’importo delle proprie spese totali tra il 2000 e il 2005.

A tutt’oggi pare che ben il 40% del bilancio complessivo di Medicare sia destinato proprio ai rimborsi delle spese sostenute dalle case di cura private. L’importo versato è pari a 135$ al giorno per ogni singolo paziente assistito e, con tale somma, gli amministratori degli ospizi devono far fronte a tutte le spese necessarie che comprendono il pagamento del personale addetto all’assistenza, assistenti sociali, medici, medicinali e forniture varie. Nel 1998 il Congresso degli Stati Uniti decise di togliere qualsiasi limite circa il numero di giorni per i quali un paziente, riconosciuto come malato terminale, per legge dal medico personale e dal direttore sanitario della casa di cura di destinazione, aveva diritto all’assistenza, ampliando di conseguenza il numero dei potenziali bisognosi di cure. Tale provvedimento però non venne accompagnato da un innalzamento della somma totale rimborsabile per le stesse case di cura, decisione discutibile ma mirata a contenere i costi del programma stesso.

Tutta la questione sollevata dall’autorevole quotidiano newyorchese non fa altro che mettere in rilievo ulteriormente le contraddizioni di un sistema di assistenza sanitaria come quello americano che, anche laddove sia presente la mano pubblica, deve rispondere in primo luogo alle esigenze del profitto. Ad ammetterlo, nemmeno troppo implicitamente, è lo stesso vice direttore del Centro per i Servizi di Medicare e Medicaid, programma quest’ultimo destinato alle famiglie a basso reddito, Herb B. Kuhn, il quale, basandosi sul fatto che secondo i dati in suo possesso nove case di cura su dieci negli USA riescono tuttora a gestire con successo il budget assegnato loro, ritiene che per le aziende in difficoltà il problema abbia a che fare esclusivamente con la capacità di far quadrare i conti dei rispettivi amministratori.

Decisamente non della stessa opinione sembrano essere invece i dirigenti delle aziende che operano in questo campo, come Richard R. Slager, presidente di VistaCare, una compagnia privata di base in Arizona e che opera in 14 stati dell’Unione. Dalle dichiarazioni rilasciate da Slager al New York Times si evince chiaramente il nodo centrale del problema che riguarda i limiti di spesa entro i quali Medicare garantisce i rimborsi, questione che a sua volta è legata a doppio filo con la presunta aspettativa di vita del malato terminale. “La nostra società ha dovuto indirizzare le proprie strategie di marketing verso i pazienti malati di cancro”, ha affermato senza mezzi termini Slager, facendo venire i brividi a qualche lettore europeo con poca conoscenza del sistema sanitario americano. “Nelle comunità dove i tetti di rimborso rappresentano un problema, abbiamo per forza di cose dovuto cercare di orientarci verso quei pazienti che sapevamo potevano rimanere nelle nostre strutture per un periodo di tempo non troppo lungo”. In seguito a richieste di pagamento da parte di Medicare per somme superiori ai 200 milioni di dollari negli ultimi quattro anni, VistaCare ha scelto di chiudere 16 dei 58 ospizi di sua proprietà.

Sia pure su scala minore rispetto al caso appena esposto, si colloca infine in maniera ugualmente significativa nel vivo della questione anche l’episodio che riguarda il “Hometown Hospice” di Camden, Alabama, che fa da filo conduttore all’inchiesta proposta dal New York Times. Nata nel 2003, questa struttura guidata da Tanya O. Walzer-Butts e Gaines C. McCorquodale, fornisce assistenza a 60 pazienti, la maggior parte dei quali visitati quotidianamente a domicilio, residenti nella poverissima contea di Wilcox. Nei suoi primi due anni di attività la casa di cura dell’Alabama ha dovuto fronteggiare una richiesta di pagamento da parte di Medicare di ben 900.000 $, somma coperta solo grazie ad un prestito contratto con una banca locale. Quando successivamente l’istituto bancario ha rifiutato un ulteriore finanziamento alla luce del peggioramento della situazione, Hometown Hospice ha dovuto addossarsi un debito di cinque anni con la stessa agenzia federale che gestisce il programma sanitario (“Centers for Medicare and Medicaid Services”) ad un tasso di interesse del 12,5%. E il prossimo conto è atteso da un momento all’altro. “Se la somma da pagare sarà nuovamente nell’ordine di centinaia di migliaia di dollari non vedo come potremmo sopravvivere”, hanno amaramente ammesso i proprietari della casa di cura.

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