di Luca Mazzucato


Una sorpresa dell'ultimo minuto nell'Accademia navale di Annapolis dà il via alle danze della conferenza di pace. Cinque minuti prima del discorso di Bush, il presidente dell'ANP Abbas e il premier israeliano Olmert raggiungono un'intesa su un documento inaugurale. Un George W visibilmente soddisfatto legge la dichiarazione: Israele e ANP si impegnano a raggiungere un accordo di stato finale entro la fine del 2008, cominciando il 12 dicembre prossimo. Olmert ha corretto il tiro subito dopo dichiarandosi scettico sulla effettiva conclusione entro il 2008. È possibile che questa dichiarazione iniziale sarà anche l'unico risultato del notevole sforzo diplomatico messo in campo dagli Stati Uniti: indire una conferenza per convocare conferenze future, in un nuovo gioco di rimpalli mediatici. Anche se nessun risultato viene raggiunto sul campo, l'importante è mostrare di essere “impegnati nella risoluzione del conflitto.” Con uno slancio di entusiasmo, Putin ha capito il trucco e si è subito candidato per ospitare la prossima conferenza di pace da tenersi in primavera a Mosca. Il compromesso raggiunto da Abbas e Olmert nel documento congiunto contiene alcuni punti interessanti. Abbas è riuscito a forzare la mano a Olmert ed ottenere una precisa data per i negoziati, con successivi incontri bisettimanali. L'ANP si è battuta per ottenere un arbitrato internazionale composto da tre membri indipendenti, che giudichi l'effettiva realizzazione sul campo degli accordi futuri: davanti al veto israeliano, Abbas ha dovuto accettare come giudice unico un l'ex comandante americano della NATO in Europa, il generale Jones. La novità da parte israeliana è l'intenzione di “fermare l'incitazione all'odio e il terrorismo, sia da parte palestinese che israeliana,” ammettendo implicitamente per la prima volta l'esistenza di una violenza di stampo ebraico nei Territori. Tuttavia, Olmert è riuscito a svincolare il proseguimento dei negoziati dalla verifica dei risultati sul campo. Bush ha poi ricordato le due precondizioni della defunta road map. Mentre Abbas dovrà “smantellare tutte le infrastrutture terroristiche,” leggi disarmare tutte le milizie tranne il braccio armato di Fatah, accorpato nella sicurezza dell'ANP, Olmert dovrà fermare l'espansione delle colonie e rimuovere alcuni avamposti.

Nessuno dei punti cruciali del negoziato è stato toccato nei discorsi inaugurali dei tre attori: non il ritorno dei rifugiati, non i confini permanenti di Israele, non il diritto al ritorno dei rifugiati. L'opinione pubblica palestinese è per lo più indifferente ai negoziati di pace, certi che un altro giro di chiacchiere si risolverà ancora una volta in un nulla di fatto. Gli impiegati pubblici sperano che questa conferenza convinca almeno i donatori internazionali a riaprire i rubinetti degli aiuti che pagano i loro stipendi. Ma la vera preoccupazione per i palestinesi in West Bank viene da tutt'altra direzione: la feroce repressione in atto negli ultimi giorni da parte della polizia dell'ANP. Numerose manifestazioni contro la conferenza di Annapolis si sono succedute in varie città in West Bank e Abbas ha vietato qualsiasi protesta e mandato la polizia palestinese a massacrare di botte i dimostranti. A Hebron la polizia ha sparato e ucciso un manifestante con un colpo al cuore. Il giorno dopo, la polizia è tornata ai funerali della vittima per disperdere la folla e negli scontri sessanta persone sono rimaste ferite. La stretta violenta dell'ANP sui palestinesi della West Bank è la dimostrazione dell'estrema debolezza della leadership di Abbas. Allo stesso tempo, Abbas vuole mostrare a Bush e Olmert che i loro soldi, investiti nelle forze di sicurezza fedeli a Fatah, stanno dando buoni frutti. Per ottenere il subappalto della sicurezza dalle mani dell'esercito israeliano, Abbas si esercita a reprimere ogni dissenso, seguendo l'esempio degli altri paesi arabi “moderati” alleati degli USA, in realtà brutali stati di polizia.

In Israele la conferenza di Annapolis sta creando qualche problema a Olmert: il partito religioso dello Shas e quello russofono di Lieberman minacciano di lasciare la coalizione di governo nel caso in cui “Olmert menzioni Gerusalemme alla conferenza.” Ma il governo Olmert è in una botte di ferro, visto che i punti cruciali del negoziato, tra cui lo status della parte occupata di Gerusalemme Est, verranno con buona probabilità ignorati. Mentre i militanti islamici da Gaza lanciano “una pioggia di Qassam su Israele” (al ritmo di una dozzina al giorno), l'esercito israeliano continua la sua offensiva nella Striscia, uccidendo in ventiquattro ore almeno sette palestinesi con attacchi aerei e invasioni con carri armati nel nord e sud della Striscia. Secondo varie testimonianze, due giovani palestinesi, feriti in un bombardamento, sono state poi massacrati a sangue freddo a colpi di mitra da un battaglione dell'IDF, mentre giacevano a terra privi di sensi.

Se, come osservato da molti commentatori, l'asse del male è il vero obiettivo della conferenza, allora il risultato preliminare dell'amministrazione Bush è sicuramente positivo. La partecipazione della Lega Araba e in particolare la presenza storica dell'Arabia Saudita lasciano isolato in un angolo il regime di Teheran. Ma soprattutto, il più rischioso azzardo di Bush è riuscito: spingere la Siria, unico alleato regionale di Teheran, a prendere parte alla conferenza. La Siria aveva posto come precondizione la discussione delle alture del Golan, territorio siriano occupato nel '67 dallo stato ebraico. Bush aveva prima rassicurato Damasco, tralasciando poi di menzionare il Golan nel discorso inaugurale della conferenza. La Siria si trova ora nell'imbarazzo di sedere allo stesso tavolo con uno stato nemico, Israele, senza poter ottenere nessun risultato tangibile, mettendo allo stesso tempo in discussione la sua alleanza strategica con l'Iran, dove infatti Ahmadinejad si è dichiarato “stupito” della partecipazione di Damasco. È prevedibile dunque che nei giorni prossimi, dietro il paravento della causa palestinese, Bush e Olmert cercheranno in realtà di coalizzare un fronte arabo di appoggio al possibile l'attacco ai siti nucleari iraniani.

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