di Giuseppe Zaccagni


Nel 1921 a Shangai erano 13 i delegati comunisti che rappresentavano circa 50 iscritti. Ora, il 15 ottobre 2007, nella grande sala pechinese della Città Proibita, al XVII° congresso, saranno in 2120 a rappresentare circa 70 milioni di membri del Partito diretto dal sessantatreenne Hu Jintao. Appuntamento epocale, perché dovrebbe segnare una svolta, nel senso di una “purga” generale da sviluppare nel momento in cui l’intera società cinese si trova a fare i conti con la collusione (reale e documentata) tra potere e denaro per quei dipendenti statali iscritti al Pcc. E non è un caso se nella cartella che è consegnata ai delegati c’è un dossier - approntato dalla “Commissione per il controllo della disciplina” – che contiene la bozza di un "Regolamento per impedire severamente gli interessi illeciti ricavati dagli incarichi". Questo vuol dire che il livello di guardia si è notevolmente alzato e che le recenti affermazioni del segretario generale - “Operare con un pensiero chiaro, con una politica ferma e uno stile concreto” - saranno il tema centrale del congresso. Che sarà chiamato, tra l’altro, (come scrive il Renmin Ribao, il “Quotidiano del popolo”) a “rafforzare la coscienza delle difficoltà”, a “guardarsi dall'arroganza e dall'impulsività”, ad “intensificare lo studio e lavorare con diligenza per rafforzare la solidarietà”. Si tratta - è chiaro - di giri di parole che annunciano i cambiamenti che si intendono effettuare in vista della eliminazione (politica, s’intende) di quanti si sono messi di traverso nei confronti della linea generale.
Ora, in particolare, a cadere sotto la scure delle purghe dovrebbero essere gli uomini di quella che è comunemente chiamata come la “cricca di Shanghai”. E cioè quella fazione legata all’ex presidente Jiang Zemin, i cui membri sono accusati per diversi scandali legati a fatti di corruzione. Ma la questione che agita maggiormente la vita del Pcc di questi ultimi tempi è anche quella che si riferisce ai problemi relativi alla democrazia interna - nelle file del Pcc - ed esterna, nell’intera società cinese. In pratica è contestato il monopolio assoluto del Partito ed è messo in discussione il ruolo di ente supremo della verità e della linea. Con sempre maggiore insistenza si parla di pluralismo politico e si accenna anche a quella idea del pluripartitismo che, un tempo, suscitò scandali e repressioni nella vicina Unione Sovietica. Ma oggi è proprio la “Cina comunista” che, con il suo pragmatismo geopolitico, si trova a dover affrontare (almeno in teoria) i problemi che si pongono ad un movimento comunista che non può più basare il suo credo e la sua linea sui dogmi di un tempo.

E qui si fanno avanti esponenti di varie generazioni che già annunciano battaglie forti anche dell’appoggio e della “benedizione” di un “santone” del Partito come Xie Tao, 85 anni, membro del Pcc dal 1946, che ha sperimentato sulla propria pelle le prigioni e le purghe di Mao negli anni ’50. E’ lui che dalle colonne del mensile Yanhuang Chunqiu (“La Cina attraverso le epoche”) rinfocola il dibattito sulla democrazia nel Paese scrivendo che “la riforma del sistema politico non può essere più rimandata… solo la democrazia costituzionale può risolvere alla base i problemi di corruzione del partito al potere; solo il socialismo democratico può salvare la Cina”. Nella sua analisi, Xie Tao afferma che la dittatura del Partito unico “non è obbligatoria per il marxismo” e che, guardando alla storia del XX secolo come una competizione fra capitalismo e marxismo, emerge vittorioso il socialismo democratico “alla svedese” che ha “trasformato capitalismo e comunismo”, sottolineando insieme l’uguaglianza e i diritti politici.

Il tutto mentre i “moralizzatori” della vita locale si fanno forti anche di una serie di notizie che ormai escono allo scoperto nei pur controllatissimi media. E così dalla lettura delle attività regionali del Pcc risulta che è in atto un’aperta campagna di predicazione confuciana per un ritorno alla “sobrietà”, alla “dedizione” e al “servizio”. E aumentano, di conseguenza, le regole cui obbedire: ai membri del Pcc si proibiscono il gioco d’azzardo, di avere seconde mogli, visitare night-club; partecipare a cerimonie religiose e a sottrarsi ad eventuali casi di conflitti di interessi. Per non parlare poi delle gestioni familiari della cosa pubblica. Proibito il nepotismo anche con pene detentive richieste dalle stesse organizzazioni di Partito…

Soffia quindi sul congresso il vento dello scisma e della “occidentalizzazione”, fenomeni sicuramente nuovi ed inediti per la struttura verticistica del comunismo cinese. Ma la visione di Xie, che critica il Pcc fin nelle sue radici, (riproposta su diversi siti “Internet”) è accolta con freddezza dall’Ufficio della Propaganda del Comitato Centrale che condanna la visione di questo “eretico” come una “liberalizzazione borghese” e una temutissima “evoluzione pacifica” di stampo occidentale.

Al momento non c’è nessuna decisione repressiva. Non si registrano condanne. Tutto fa pensare che proprio in questo periodo congressuale Hu Jintao non vuole essere disturbato e non vuole aprire fronti e scontri. Sa di essere riconfermato segretario del Pcc per altri 5 anni e cerca, pertanto, di gestire il dissenso “occidentalista” nell’ambito delle strutture di vertice dello stesso Partito. Si fa forte di una linea chiamata “della fermezza” che pur palesando riforme, resta saldamente ancorata alla funzione guida del Partito stesso. Hu Jintao punta anche sui risultati positivi ottenuti da quella transizione morbida che porta il Paese da un’economia pianificata ad un’economia di mercato. In questo contesto si sta rivelando abilissimo nel far accettare a vasti strati del Paese il radicale cambiamento in corso. In pratica il segretario comunista vuol rimarcare che la Cina non farà la fine della Russia giungendo ad una distribuzione del reddito che non provochi scompensi sociali.

Ma il segretario generale - da grande pragmatico - sa anche che la questione generale del futuro dovrà essere affrontata al Congresso non solo sul piano ideologico, ma anche su quello della gestione pratica del presente. E qui si impone un discorso chiaro sulle rivendicazioni che si riferiscono al rapporto con Taiwan. Un paese che manifesta sempre più la sua volontà di indipendenza ricordando che a Pechino “mancano democrazia e libertà”. I media dell’isola ribelle insistono sul tema evidenziando episodi di repressione e aggressioni contro dissidenti e attivisti cinesi. Il bersaglio più recente - scrivono le agenzie di Taiwan - è stato l'avvocato difensore dei diritti umani Li Heping, rapito il 29 settembre davanti al suo studio legale, malmenato per ore e poi rilasciato fuori città.

Secondo l'organizzazione non governativa “Human Rights” in Cina questa escalation, che colpisce soprattutto gli avvocati, dimostrerebbe l'incapacità del governo di garantire lo stato di diritto. Si rinnovano gli appelli affinché sia consentito il rientro nel Paese ai dissidenti in esilio, primo fra tutti Wang Dan, uno degli organizzatori delle proteste di piazza Tienanmen (4 giugno 1989), condannato nel 1996 a 11 anni di carcere e oggi promotore da Taiwan di una petizione che ripropone i punti relativi ad una democratizzazione del Paese.

E mentre la Cina vive questa fase congressuale che potrebbe portare a nuovi sconvolgimenti, cresce sempre il culto di Mao. Nelle strade di Pechino - riferiscono le agenzie di stampa - si vendono ritratti, busti dorati, monete e souvenir di vario tipo. Spicca un Mao per turisti locali e stranieri. E così torna d’attualità la figura del Grande Timoniere. Con la sua città natale - Shaoshan - che è diventata la Lourdes del culto.

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