di Eugenio Roscini Vitali

Il risultato del voto indiretto per la scelta del presidente del Pakistan che il 6 ottobre il Parlamento e le assemblee provinciali hanno espresso, determinando la vittoria “scontata” del generale Pervez Musharraf, non da assolutamente l’idea del difficile momento che sta attraversando il Paese. La votazione, il cui risultato sarà reso ufficiale non prima di 11 giorni, si è tenuta in un clima di dubbi e sospetti ed è stata inficiata dall’assenza delle opposizioni. Infatti, il venerdì precedente il voto la Corte suprema aveva comunicato le sue “non decisioni” riguardo la possibile rielezione del generale alla carica di presidente della Repubblica Islamica del Pakistan; il giudice Javed Iqbal non aveva sciolto la riserva sulla candidatura di Musharraf, rimandando il giudizio al 17 ottobre e congelando l’esito del responso elettorale. Quello espresso dai pochi presenti al Parlamento e alle quattro assemblee provinciali è stato un verdetto unanime, dove Musharraf ha raccolto la quasi totalità dei voti: 252 su 257 nel Parlamento nazionale e stessa percentuale nelle Assemblee provinciali. Unici avversari del generale Musharraf sono stati Makhdoom Amin Faheem, ex ministro con il governo di Zulfikar Ali Bhutto, e Wajihuddin Ahmed, giudice in pensione che però ha raccolto solo una manciata di voti. L’opposizione ha contestato duramente la legittimità della consultazione, così come i rappresentanti del movimento degli avvocati che a Peshawar, roccaforte dell’opposizione, hanno inscenato numerose manifestazioni di protesta durante le quali non sono mancati gli scontri con le forze di polizia che non hanno esitato a calcare la mano. Correre per la nomina a presidente è senza dubbio stato il principale obiettivo del Capo dello Stato e capo delle Forze Armate pakistane, un sogno che ad un certo punto sembrava però naufragare a causa degli enormi problemi che da tempo soffocano il Paese e a cui il regime ha saputo rispondere, e non sempre, con il solo uso della forza. Ma all’improvviso, come in un numero di raffinata magia, Musharraf è riuscito ancora una volta a stupire la platea e a pochi mesi dalle votazioni si è assicurato l’alleanza dell’ex premier Benazir Bhutto, rientrata miracolosamente dall’esilio per intercessione di Washington e con il permesso della Corte di giustizia.

L’accordo tra Musharraf e la Bhutto, praticamente sancito con la firma di un provvedimento di amnistia che ha cancellato le accuse di corruzione per le quali l’ex premier era stata costretta a ritirasi a Dubai, ha aperto la strada alla spartizione del potere pakistano. Il primo ostacolo, l’elezione presidenziale, è stato superato e mentre l’opposizione non è entrata in aula, i deputati del Partito popolare pachistano (Ppp) di Benazir Bhutto si sono astenuti, interpretando perfettamente il loro ruolo di “opposizione silente” e rinunciando, di fatti, a giocare il ruolo di forza antigovernativa svolto fino a qualche mese fa.

La luce arancione della Corte suprema non aiuta certo a sciogliere l’intrigata matassa che si è venuta a creare all’interno del sistema istituzionale pakistano. Un verdetto ambiguo che allunga i tempi e da la possibilità di rafforzare l’asse Musharraf-Bhutto, rendendo possibile la legittimazione del generale nel ruolo di Capo dello Stato e lasciando spazio alla manovre messe in atto da Washington che, per salvare il suo pupillo e miglior alleato asiatico, vede come unica via d’uscita lo sharing del potere tra i due leader. Musharraf, che dal 1998 controlla praticamente tutto il sistema militare pakistano, ha visto crollare i suoi consensi dopo aver attaccato il presidente della Corte suprema di giustizia, il giudice Iftikhar Mohammad Chaudhry, accusato di corruzione e sospeso dall’incarico.

Quello che per Musharraf è evidentemente l’unico modo per eliminare i nemici, politici e non, si è però rivelato un errore fatale nel caso del presidente della Corte suprema di giustizia. Oltre all’opposizione la protesta ha coinvolto gran parte della società civile: l’ordine degli avvocati, i giornalisti, i lavoratori dello stato, sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente. Le tensioni hanno inoltre favorito gli estremisti islamici che hanno trovato l’occasione per dare vita alla rivolta della Moschea Rossa. Ma dopo otto anni di governo Musharraf sa sostenere questo tipo di confronti e, pur di rimanere in piedi, è pronto a qualsiasi compromesso. E così ha reintegrato Chaudhry, ha perdonato la Bhutto e si è reso disponibile a firmare l’amnistia per Mian Muhammad Nawaz Shariff, ex premier e capo dell’opposizione anche lui in esilio dal 1997.

Con questa elezione “plebiscitaria” il Generale ha cercato di confondere le acque, guadagnare spazio e tempo e soprattutto i favori della Corte suprema. La reazione degli islamici moderati e di tutti quelli che credono nel cambiamento non è però stata quella sperata dal regime. Le Province della Frontiera nord occidentali hanno dato subito battaglia e a Peshawar le manifestazioni di protesta sono subito sfociate in disordini e violenti scontri con la polizia. Forse la cosa più grave, quella che più di ogni altra cosa da il polso della situazione, è stata la reazione della gente comune assiepata davanti al parlamento di Islamabad. Abitanti della capitale che hanno giudicato il risultato della consultazione parlamentare un vero scandalo, una farsa che alcuni hanno subito definito un dramma che condanna le speranze di democrazia del popolo pakistano.

A meno che la bomba Pakistan esploda in una vera rivolta o avvenga un quanto mai improbabile voltafaccia delle forze armate, la Corte suprema è senza dubbio l’unico organo istituzionale in grado di fermare Musharraf. Il verdetto potrebbe favorire il Generale e permettergli di ricoprire contemporaneamente il ruolo di Capo delle Forze Armate e Capo dello Stato, oppure rendere la decisione del Parlamento nulla e rimandare le assemblee a nuove elezioni. Come terza ipotesi, Musharraf potrebbe essere chiamato a decidere a quale delle due cariche rinunciare. Il dubbio è: cosa accadrebbe se il presidente decidesse di rinunciare alla divisa? E Washington rimarrebbe ancora al suo fianco? E’ un dubbio che sicuramente attanaglia lo stesso Musharraf, dal quale è comunque lecito aspettarsi di tutto: più che un militare tutto d’un pezzo, ormai potremmo definirlo un vero un camaleonte politico.


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