di Giusy Baioni

Secondo paese in Africa per dimensioni (è grande otto volte l'Italia), certamente primo quanto a ricchezza del sottosuolo e risorse strategiche, la Repubblica Democratica del Congo sta cercando la sua via per la pace.
Il Paese si sta faticosamente risollevando dopo anni di una guerra terribile e mal conosciuta, che ha fatto il maggior numero di morti al mondo dopo la seconda guerra mondiale. L'avevano ribattezzata la "prima guerra mondiale africana", per i tanti paesi coinvolti e dal '98 ad oggi si calcola abbia causato quattro milioni di vittime. Non tutti, certo, uccisi in maniera cruenta. La maggior parte sono morti di stenti, fame, malattie banalissime che la guerra aveva reso incurabili. Uno dei "danni collaterali" su cui non si riflette mai abbastanza. La guerra ha infiammato le regioni ad est del Congo, al confine con Rwanda e Uganda (nord e sud Kivu, Provincia Orientale). Oggi in queste zone permangono focolai di scontri e un'insicurezza diffusa, che ha minato la fiducia della gente ma non la sua voglia di cambiamento e ricostruzione. Finalmente, il Congo che esce dalla guerra va alle urne. Sarà la prima volta dall'indipendenza. Sotto Mobutu si era votato, ma con candidato unico. Queste saranno le prime elezioni democratiche libere.
Un traguardo a cui la popolazione aspira con ansia, soprattutto all'est, nelle zone martoriate dalla guerra. Uno sforzo che tutta la Comunità Internazionale sta sostenendo, per una volta in maniera unanime. Non è certo semplice organizzare le elezioni in un paese senza anagrafe, senza strade e soprattutto senza una cultura democratica. Il lavoro da fare è immane, il tempo è poco.
In base agli accordi di pace siglati nel 2003, il 30 giugno sarà la data ultima entro la quale andare al voto, perché in quel giorno (anniversario dell'indipendenza dal Belgio), il Parlamento di transizione terminerà il suo mandato.
In base agli accordi, il Congo della transizione è governato con la formula 1+4: un presidente (Joseph Kabila, figlio dell'assassinato Laurent Desiré Kabila) e quattro vicepresidenti, che rappresentano gli attori principali del conflitto. Una scelta obbligata, che ha costretto i signori della guerra a dismettere la divisa per indossare giacca e cravatta. E che - con tutti i limiti del caso - è servita ad evitare le rescrudescenze della guerra.
Ai cinque presidenti sono affiancate cinque commissioni di controllo, gestite dalla societé civil. E la più importante di tutte, ora, è la CEI, la Commissione Elettorale Indipendente, che ha in mano l'organizzazione delle elezioni.

Le "prove generali" sono state fatte il 18-19 novembre, quando i congolesi hanno votato il referendum di approvazione della nuova costituzione. Risoltosi con un plebiscito in favore della costituzione (in alcune zone dell'est si è arrivati al 97% di sì), il referendum è stato anche l'occasione per registrare gli elettori. Che mostravano fieri il dito macchiato d'inchiostro e che ora sono in possesso della "carta elettorale", che funge anche da documento d'identità: il primo della loro storia.

Il Parlamento di transizione ha appena concluso la discussione della legge elettorale e si attende a giorni la comunicazione ufficiale del calendario. Ci saranno quattro tornate elettorali, di cui tre a suffragio universale: le presidenziali (in due turni), le legislative per l'assemblea nazionale, le legislative per la camera alta (voto indiretto) e, infine, le locali.
Uno sforzo organizzativo immane: i partiti iscritti sono già 250, qualcuno prevede che raddoppieranno. Anche solo pensare a come approntare le schede elettorali è impresa ardua, tanto più se si tiene conto dell'elevato tasso di analfabetismo. Una delle ipotesi è che sulle schede compaia anche la foto del candidato. Poi ci sono i problemi di trasporto, in un paese in cui alcuni centri sono raggiungibili solo in elicottero. E, infine, un problema fondamentale: come informare e preparare la popolazione. Ci sono già molti gruppi di base (in gran parte legati alle chiese, numerosissime in Congo come in tanti paesi africani) che organizzano corsi di formazione, trasmissioni radio e altre iniziative di sensibilizzazione.

La Comunità Internazionale, dal canto suo, segue e sostiene economicamente lo sforzo. L'Unione Europea è tra i principali finanziatori e monitora costantemente l'evoluzione del processo. Un ruolo chiave, ovviamente, lo svolge la Monuc, la missione Onu in Congo, che con 11.000 caschi blu è la più grossa al mondo. È chiaro, ormai, che la guerra non conviene più a nessuno. E la stabilizzazione del Congo è divenuta prioritaria anche per i Paesi occidentali.
In tanti stanno anche organizzando gruppi di osservatori per le elezioni. Ce ne saranno di tutti i tipi:da quelli istituzionali dell'Onu e della Commissione Europea, a quelli dei grandi Istituti internazionali (il Centro Carter, il sudafricano EISA); dai gruppi legati alle Ong a quelli delle chiese (per esempio i mennoniti).
E l'Italia non poteva mancare: anche la nostra società civile sta organizzando un gruppo di osservatori elettorali indipendenti, che raccoglieranno volontari dalle varie anime dei movimenti e dell'associazionismo. Del resto, il paese è talmente grande e il bisogno così impellente che ogni aiuto è gradito, anche dalle istituzioni internazionali.

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