di Bianca Cerri

Oltre ad uccidere milioni di persone e a devastare paesi interi, la guerra corrode mente ed anima di chi crede di combattere per una giusta causa. I traumi non derivanti da battaglia, come vengono definiti in gergo militare impediscono ai reduci di riprendere il controllo sulla propria esistenza spingendoli spesso a commettere atti irreparabili. I comandi militari minimizzano per paura di perdere consenso, ma qualcosa sta iniziando ad emergere grazie alle testimonianze di uomini e donne sconvolti dall'esperienza vissuta nell'esercito. Invasione dopo invasione, l'America ha visto i suoi soldati impazzire, finire nella strada e nelle carceri per aver assorbito tanta violenza da non riuscire più ad esprimersi se non attraverso altra violenza. I giovanissimi soldati inviati in Vietnam alla fine degli anni Sessanta, furono catapultati a forza in un mondo fatto di notti all'addiaccio, giorni di calore insopportabile e morte, dove solo i più fortunati riuscirono a salvarsi. Finita l'epoca della leva obbligatoria, è iniziata quella del reclutamento di volontari inesperti, incapaci di sopportare la durezza di un conflitto, addestrati a lanciare bombe e sparare ma non a convivere con sé stessi. Forse vanno cercati qui i motivi che hanno portato a circa novanta i suicidi nei ranghi dell'esercito americano di stanza in Iraq, ai quali il Pentagono ha reagito lavandosene le mani al punto di non includere i nomi degli scomparsi nelle liste dei caduti. I genitori di Jeffrey Lucey , uno dei marines che hanno messo volontariamente fine alla propria vita, hanno spiegato alla giornalista Amy Goodman che Jeffrey sembrava tormentato dall'ansia e al tempo stesso offeso dalla scellerata indifferenza dei superiori nei confronti del suo disagio mentale.
Neppure dopo la sua morte ci sono stati segnali d'interesse per i soldati affetti da sindrome post-traumatica, a parte alcuni rimbrotti del Pentagono alla stampa che trasforma i topi in elefanti pretendendo di ricavare una morale da tutto. Resta però il fatto che la morte di ogni uomo meriterebbe non solo un atteggiamento morale ma anche parecchie spiegazioni che il Pentagono non ha ancora dato. I dati statistici dimostrano che la percentuale di depressi nelle forze armate è nettamente superiore a quella della popolazione civile riguardante le stesse fasce d'età, ma sembra che il problema non interessi le autorità militari. Il Direttore del National Gulf War Resource Center ammette apertamente che non esistono strutture attrezzate per accogliere i reduci che tornano dalle zone di guerra con l'anima lacerata dall'esperienza. La stessa cosa che ha confidato alla stampa il padre di Curtis Greene, l'ultimo dei militari morti suicidi, che si è visto restituire gli oggetti personali del figlio senza neppure una parola di condoglianze. Tornato a casa per una breve licenza, Greene aveva detto alla moglie che piuttosto che tornare in Iraq si sarebbe ucciso. Una mattina lo hanno trovato impiccato nel garage di casa. Il malessere misto al rimorso per aver tolto la vita a dei civili innocenti, il ricordo dei commilitoni saltati in aria davanti ai suoi occhi, il terrore di precipitare di nuovo nell'inferno della guerra, lo avevano sopraffatto.

A Rebecca Seull, giovane vedova madre di tre bambine, le autorità municipali avevano promesso una stele in memoria del marito Joseph, caduto in Iraq, salvo fare rapidamente marcia indietro dopo aver appreso che l'uomo non era caduto per mano del nemico, ma aveva ingerito una quantità industriale di sonniferi per farla finita con la violenza alla quale era costretto ad assistere ogni giorno. Il suo corpo è tornato in patria senza tante fanfare e le spese funerarie sono state a carico della famiglia. Si avverte una certa riprovazione da parte degli alti ranghi dell'esercito nei confronti degli uomini usciti tragicamente di scena per loro volontà, che non esiste invece per i reduci che si liberano esercitando su altri la violenza repressa. Reneè di Lorenzo, Thomas Stroh e Brandon Bare, tutti e tre uxoricidi, sono stati definiti dei buoni soldati. Evidentemente, nell'apparato militare permane una concezione maschia della vita, che non prevede cedimenti da parte di chi indossa la divisa, ma tende a proteggere i propri appartenenti colpevoli di gravi reati dalla riprovazione generale.

Un ufficiale ha detto al Washington Post che "sono sempre le donne a portare il caos nella vita dei militari". Colpevolizzare le donne, comprese quelle addestrate ad usare fucili e tirare bombe come i colleghi maschi, è il nuovo trend dell'esercito USA. Circa trecento soldatesse hanno perso uno degli arti dall'inizio della missione in Iraq, duecentocinquanta non sono riuscite ad uscirne vive, nessuna è riuscita a farsi ascoltare quando aveva denunciato abusi sessuali.
Il generale Sanchez, del Comando generale, si è limitato a consigliare loro di non uscire dalle baracche di notte e il numero verde che avrebbe dovuto accogliere le richieste di aiuto non risponde. Il Ministero della Difesa ha messo in rete una pagina web avvertendole di non dare confidenza agli estranei che girano nei quartieri militari USA, specialmente se di cultura diversa. Non erano però musulmani affamati di sesso gli sconosciuti che hanno aggredito ed ucciso il sergente Lavena Johnson, morta a causa di un colpo alla testa che le ha provocato un'emorragia fatale e non si sa cosa abbia provocato la morte di Gussie Jones, Tamarra Ramos e Melissa Hobart, altre tre donne soldato decedute all'improvviso.
Vittime del malessere della guerra o della follia distruttiva dei compagni? Nessuno può dirlo ancora con certezza e bisognerà attendere la fine di indagini che si annunciano annose.

Per placare le polemiche, il portavoce del Pentagono ha invitato la stampa a non personalizzare le notizia e a "non dimenticare il bene che le forze armate hanno fatto al paese". Ma questa ridondanza di termini stride malamente con i costi umani di una guerra ancor più sanguinaria ed inutile di tutte le altre guerre. Destinata a lasciare cicatrici che sarà impossibile rimarginare, anche per un paese potente come gli Stati Uniti.

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