di Bianca Cerri


George Lester Jackson aveva solo 14 anni compì il primo viaggio della sua vita verso un centro di “aggiustamento”, espressione eufemistica per indicare centri di reclusione riservati ai minori considerati troppo difficili per i comuni riformatori. Dal finestrino del torpedone, Jackson e gli altri ragazzi della sua età guardavano sfilare il paesaggio con occhi privi di espressione. Erano tutti neri o meticci e pochi di loro avevano conosciuto un’esistenza stabile o ricevuto un’istruzione regolare. Cresciuti fra orfanotrofi dove li avevano collocati le autorità dello Stato e la strada, erano destinati ad un’esistenza che si sarebbe svolta tra un andamento non meno chiaramente definito di quello classico, solo che al posto delle scuole medie e superiori e dell’università ci sarebbero stati riformatori, carceri minorili e infine i penitenziari. Nel centro di “aggiustamento”, George Jackson aveva avuto l’impressione di essere capitato in un mondo che si muoveva al contrario. La sezione “H” alla quale era stato assegnato somigliava ad un immondezzaio dove si rischiava di regredire ad uno stato di bestialità, ma l’amministrazione si illudeva che bastasse insegnare il pateravegloria e sputare per raddrizzare il comportamento dei ragazzi che in galera ci stavano da quando erano nati.
Dopo i 12 mesi trascorsi nel centro di “aggiustamento”, il carcere sarebbe divenuto una costante nella vita di Jackson e nel carcere avrebbe avuto inizio la sua maturazione politica. Insieme ad altri detenuti neri formò dei gruppi di lavoro per avviare un progetto di presa di coscienza sulla condizione della gente di colore negli Stati Uniti. L’obiettivo primario era la costruzione di un fronte unico in rappresentanza di tutte le minoranze oppresse.

La prigione, sebbene sia un riparo ridicolo oltre che una beffa ridicola per un essere umano, era per Jackson il luogo ideale per l’educazione rivoluzionaria. La brutalità e l’oppressione non erano mascherate dalle subdole arti del dissenso politico e delle concessioni sociali. La persecuzione condotta dall’oppressore all’interno delle carceri era nuda e cruda. Era stato proprio questo a spronare Jackson a battersi a dispetto del sistema che cercava di distruggerlo.

Le intimidazioni nei confronti dei “politici” erano all’ordine del giorno nel penitenziario di Soledad. Le autorità carcerarie avevano proibito persino le pettinature afro minacciando di segregare i detenuti che avessero rifiutato di farsi tagliare i capelli. Dopo che Huey Newton, uno dei fondatori delle Pantere Nere, nominò Jackson ministro della Cultura e dopo che una casa editrice pubblicò “Soledad Brothers” un libro scritto da Jackson sulla lotta all’interno delle carceri, l’occhio delle guardie iniziò a farsi ancora più guardingo. Ormai, lo stesso governo temeva l’influenza di Jackson sulle comunità nere ed aprì nei suoi confronti e nei confronti di tutti i detenuti politicizzati una lenta ma feroce campagna terroristica, fatta di omicidi che si succedevano l’uno all’altro.

Il 13 gennaio 1970, Alvin Miller, Doug Nolan e Cleve Evans, gli uomini più vicini a Jackson, furono uccisi nel cortile del braccio O del penitenziario di Soledad. Non essendo riuscite a scalfire la loro resistenza con le intimidazioni, le guardie avevano aperto il fuoco dalle torrette di guardie poste in alto abbattendoli come anatre in uno stagno. Jackson, che non aveva mai pianto durante gli anni della detenzione, alla vista di quei corpi senza vita non riuscì a trattenere le lacrime. Sapeva che prima o poi anche per lui sarebbe arrivata l’ora di morire ma andò avanti senza curarsi delle angherie.

Due settimane dopo la strage del cortile, una guardia fu gettata dal ballatoio interno e morì sul colpo. L’amministrazione di Soledad incolpò formalmente Jackson e altri tre detenuti, che da quel momento in poi rischiavano la pena di morte. La prima udienza del processo a loro carico doveva aprirsi il 7 agosto 1970 nel tribunale della contea di Marin, ma un commando delle Pantere Nere - che comprendeva anche il fratello diciassettenne di Jackson, Jonathan - fece irruzione nell’aula prima dell’inizio del dibattimento e tenendo sotto il tiro delle armi il giudice e la giuria tentò di far evadere gli imputati.

Il tentativo di evasione si concluse in una strage. I cecchini aprirono il fuoco contro Jonathan e gli altri componenti del commando, nella sparatoria uccisero anche il giudice e un altro uomo rimase paralizzato. George Jackson fu trasferito a San Quentin e segregato per un lungo tempo. Il suo libro sui Fratelli di Soledad era intanto divenuto famoso in tutto il mondo ed aveva iniziato a scriverne un secondo, “Con il Sangue agli Occhi”. Ormai il mondo iniziava a guardare a lui come il vero erede di Malcom X. Nelle comunità nere, le nuove generazioni lo consideravano un profeta, contavano sui suoi insegnamenti per raggiungere l’equità sociale che era stata negata ai loro padri.

Jackson terminò di scrivere il suo secondo libro nell’agosto del 1971 e poco dopo, almeno così scrissero il giornali, tentò di evadere dal carcere. Dalla baia oltre San Rafael arrivava il profumo del mare. I cecchini appostati sui camminamenti si divertirono a guardare quel piccolo uomo che correva a zig zag illudendosi di fuggire da una galera dominata dai bianchi, poi alzarono la mira. Colpito alle spalle, Jackson cadde sull’asfalto rovente con le braccia aperte come ali di drago. Le guardie tracciarono una riga di gesso bianco attorno al suo corpo che presto iniziò a sciogliersi sotto al sole ancora alto e solo verso sera il corpo di Jackson fu rimosso. Di lui rimase solo la sagoma vuota, ultimo segno del passaggio di un uomo capace di parlare di dignità e di grandezza, di eroismo e di martirio dal lurido marciume di un carcere.

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