di Elena Ferrara

Dopo aver lanciato messaggi distensivi nei confronti dell’ortodossia moscovita – il papa Ratzinger si appresta a scalare la “Grande muraglia” cinese. Si mette così sulla “Via della Seta” e cerca – per estendere la sua supremazia - un dialogo con Pechino pur sapendo che la strada è tutta in salita e che c’è già uno stato di allerta nel mondo politico e “religioso” della Cina comunista. Vediamo cosa sta accadendo perché c’è un testo di 28 pagine approntato dai politologi del Vaticano e indirizzato a quella chiesa cattolica della Repubblica Popolare Cinese che, sino ad oggi, riconosce come massima autorità il governo comunista erede di Mao. L’iniziativa vaticana, quindi, si limita per ora ad una lettera (“Ai vescovi, ai sacerdoti e ai fedeli della Chiesa cinese”) che assume però il significato di un manifesto del secolo. La missiva papale sarebbe già arrivata – tramite la posta prioritaria del Vaticano – alle autorità religiose cinesi, ma anche ai capi della Città proibita. Ma cosa è scritto in questo testo simile ad un nuovo mistero di Fatima? Stando ai vaticanologi più accreditati tra i testi di riferimento citati nella parte "ecclesiologica" della missiva figurano i documenti del Concilio Vaticano II e quella Lettera su alcuni aspetti della Chiesa come comunione, che fu pubblicata nel 1992 dall'ex Sant’Uffizio che allora era guidato dal Ratzinger (allora ancora cardinale) e anche alcuni suoi interventi recenti che tendono ad affermare processi di integrazioni e assimilazioni.

Ci sarebbe così nelle 28 pagine del mistero un ampio armamentario dottrinale che documenterebbe l’estraneità alla dottrina cattolica di ogni concetto di "indipendenza" delle Chiese locali (e qui il riferimento è proprio a quella “Associazione patriottica” controllata dal governo comunista) rispetto alla Chiesa universale e al Papa. Indicazioni ampie e dettagliate per superare quella divisione tra le comunità che accettano di essere inquadrate nella politica religiosa del regime e quelle che invece rifiutano tale controllo. Nel testo si afferma esplicitamente che si possono ricevere i sacramenti da qualsiasi prete che confessa la fede della Chiesa cattolica. Senza citarli, vengono di fatto archiviati i cosiddetti "otto punti".

E cioè quelle disposizioni ufficiose emesse dal Vaticano nel 1988 che di fatto vietavano la “communicatio in sacris" con vescovi e sacerdoti che accettavano il controllo degli organismi governativi. E così il Vaticano, che aveva sempre sostenuto che “l'unità della Chiesa o include formale adesione all'errore o pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo, è proibita dalla legge divina” sceglie la strada distensiva sostenendo che “la prassi pastorale dimostra, per quanto riguarda i fratelli orientali che si possono e si devono considerare varie circostanze di singole persone, nelle quali né si lede l'unità della Chiesa, né vi sono pericoli da evitare, mentre invece la necessità della salvezza e il bene spirituale delle anime costituiscono un bisogno serio”. Perciò la Chiesa cattolica, secondo le circostanze di tempo, di luogo e di persone, ha usato tutti i mezzi e la testimonianza della carità tra i cristiani, per mezzo della partecipazione ai sacramenti e alle altre funzioni e cose sacre. “In considerazione di questo, il santo Concilio per non essere noi con una sentenza troppo severa di impedimento a coloro che sono salvati e per fomentare sempre più l'unione con le Chiese orientali da noi separate, stabilisce un nuovo codice di comportamento”.

Con un’attenzione particolare a quegli orientali che “in buona fede si trovano separati dalla Chiesa cattolica, ai quali si possono conferire, se spontaneamente li chiedano e siano ben disposti, i sacramenti della penitenza, dell'eucaristia e dell'unzione degli infermi anzi, anche ai cattolici è lecito chiedere questi sacramenti ai ministri acattolici nella cui Chiesa si hanno validi sacramenti, ogniqualvolta la necessità o una vera spirituale utilità lo domandino e l'accesso a un sacerdote cattolico riesca fisicamente o moralmente impossibile”.

Di conseguenza la communicatio in sacris è consentita in celebrazioni, cose e luoghi sacri tra cattolici e fratelli orientali separati. E questa maniera più mite di «communicatio in sacris » con “i fratelli delle Chiese orientali separate è affidata alla vigilanza e al discernimento dei pastori locali, affinché, consigliatisi tra loro e, se occorra, uditi anche i pastori delle Chiese separate, abbiano a regolare con efficaci e opportune prescrizioni e norme i rapporti dei cristiani tra loro”.

Con questa lettera di 28 pagine dovrebbero essere abrogate anche le facoltà speciali concesse dal Vaticano all'inizio degli anni Ottanta, che in Cina permettevano di ordinare vescovi senza aver chiesto prima il consenso di Roma. Una misura che in pochi anni aveva prodotto la rapida espansione di una rete cattolica "clandestina" invisa al governo, ma spesso scarsamente controllata anche da Roma. Il documento attuale ripete che la Chiesa, per sua natura, rifugge la condizione di clandestinità.

La lettera evita poi – a quanto risulta - di avventurarsi nel campo minato delle polemiche sui diritti umani. I richiami alla necessità di riconoscere la libertà religiosa sono generici e non contengono riferimenti specifici al "caso" cinese. E’ così auspicata la collaborazione con lo Stato e le autorità civili in tutti gli aspet¬ti della vita della Chiesa che toccano la sfera secolare. Ma si ribadisce anche che la guida della compagine ecclesiale spetta ai vescovi, “in comunione con il successore di Pietro”. E che la pretesa di affidare tale guida a organismi civili è incompatibile con la natura “divino-umana” della Chiesa. Anche se non viene citata esplicitamente, il "non possumus" vaticano si riferisce all'Associazione patriottica dei cattolici cinesi, l'organismo con cui il governo pretende di gestire anche le questioni interne alla vita della Chiesa, a partire dalla nomina dei vescovi. Su tale punto controverso - senza citare le recenti "ordinazioni illegittime" avvenute senza mandato pontificio - la lettera farebbe capire che occorre trovare un accordo che apra la via a una normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Vaticano.

Intanto mentre la lettera circola si evidenziano in Cina i primi commenti e le prime reazioni. Il Fronte Unito raduna i vescovi ufficiali per istruirli sulla Lettera del papa. L’organizzazione politico-religiosa teme che si apra di nuovo un conflitto che vada a minare la ritrovata unità dei vescovi cinesi col papa. E così i prelati della Chiesa ufficiale – quella che riconosce l’autorità pechinese – si apprestano a trovare il modo per “rispondere” alla Lettera del papa ai cattolici. Le indicazioni che vengono avanti sembrano essere tutte di taglio negativo nei confronti dell’apertura vaticana. Si respingerebbe, in particolare, il tentativo di unificare le varie correnti religiose del cattolicesimo cinese con la scusante della “ piena libertà religiosa”.
Da tutto questo scaturisce ancora una volta che il sistema politico della Rpc non accetta imposizioni e parole d’ordine che vengono d’Oltretevere. La “Grande muraglia”, quindi, regge ancora. Ma si sa che Ratzinger ha cominciato a scalarla.

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