di Elena Ferrara

E’ una guerra ventennale che ha già provocato circa centomila vittime e almeno un milione di sfollati. Coinvolge gruppi di pressione locali e stranieri, lobby ed organizzazioni non governative. Segna un mutamento di potere dai risvolti epocali. Avviene nello Sri Lanka (noto fino al 1972 come Ceylon) ed ha come tragici attori i separatisti dell’organizzazione delle Tigri Tamil di Chennai (Ltte, Liberation Tigers of Eelam Tamil) e le forze regolari del governo di Colombo (dotate di armi che provengono dagli Usa, Gran Bretagna, Canada, Russia, Cina, Pakistan, India, Ucraina, Israele, Repubblica Ceca) che hanno riportato ultimamente dei successi sconvolgendo le formazioni della resistenza nella costa nord-orientale del paese. I combattimenti attuali si sono concentrati quindi nel nord, nei pressi della penisola di Jaffna, con pesanti bombardamenti aerei sui villaggi controllati dai separatisti. I quali – ricevendo armi dalla Cambogia, dalla Thailandia, da Singapore, da alcuni paesi dell’ex Jugoslavia e dallo Zimbabwe – si sono dotati, sin dalla fine del marzo scorso, di una piccola forza aerea che ha già condotto diverse incursioni contro obiettivi militari governativi non solo nel nord ma anche nei pressi della capitale Colombo. Si può così affermare che quel famoso processo del “ cessate il fuoco” avviato nel 2002 è sepolto sotto le bombe e migliaia di morti. Il Paese, in generale, cammina sui carboni ardenti. Le ultime notizie sono tutte in favore delle “Tigri” che rivendicano la secessione delle province nord-orientali. Si annunciano nuovi scontri a fuoco nella zona settentrionale dello Sri Lanka e precisamente a Madu, nel distretto settentrionale di Mannar, a circa 220 chilometri a nordovest della capitale. Tutto questo significa che l’”Ltte” sta rilanciando un’offensiva che, secondo gli osservatori militari, non ha precedenti ed assomiglia sempre più ad una faticosa corsa ad ostacoli contro il tempo. Ci sono unità navali dell’Ltte che hanno attaccato e conquistato una base della Marina militare governativa sull'isolotto di Delft, al largo della penisola settentrionale di Jaffna.

E sempre fonti delle Tigri rendono noto che nei combattimenti sono caduti 35 marinai governativi. Guerra anche nella capitale Colombo dove due soldati sono stati uccisi ed altri cinque feriti in un attentato suicida contro un convoglio militare che transitava nella zona periferica di Pettah. Anche in questo caso la firma è dell’Ltte. Tutta questa escalation ha portato la Croce Rossa internazionale a ritirare il suo personale dalle zone settentrionali del paese “per ragioni di sicurezza” e in particolare dalla regione del posto di blocco di Omanthai, 275 chilometri a Nord della capitale e che è il punto che segna il limite meridionale del territorio rivendicato dai guerriglieri.

La situazione si aggrava di ora in ora e pesanti sono le “statistiche” che vengono fornite dal potere centrale di Colombo: dall’inizio del 2006 - quando è stata vanificata una tregua firmata nel 2002 e sostanzialmente rispettata per quasi quattro anni - negli scontri sono state uccise non meno di quattromila perso¬ne, allungando ulteriormente il tragico conteggio di lutti provocati da un conflitto civile che perdura da quasi trentacinque anni e che, stando ai rapporti internazionali, ha già causato non meno di centomila morti e di un milione di sfollati, a dimostrazione che in questa regione i conflitti inter-etnici aumentano di giorno in giorno. Si estendono a varie zone ampliando quel solco che esiste tra la maggioranza cingalese (buddista) e quella tamil (indù) da almeno vent'anni. Il tempo si carica di tensioni e violenze.

L’Asia intera si interroga nuovamente sulle origini del conflitto. Che sono antiche quasi quanto la storia dell'isola. Qui indiani e cingalesi si contendono quella che era sempre stata considerata come la "perla dell'oceano indiano" a partire dal periodo in cui il Portogallo ne fece porto strategico e magazzino per il commercio di spezie (1505). Fu quello un elemento fondante ma non risolutivo. Arrivarono poi olandesi e inglesi con la loro Union Jack nel 1815. Ed è il periodo in cui – sotto l’egida britannica – arrivano i primi Tamil. Giungono dal sud dell'India (Stato Tamil Nadu), come lavoratori stagionali nelle piantagioni di caffè. Si trasformano poi in coltivatori di tè, ma sono pur sempre una minoranza scomoda frutto della politica di Londra che tende a dividere le popolazioni locali per imporre dall’alto il suo potere. E oggi i tamil rappresentano il 17 per cento della popolazione. Il 75 per cento è cingalese; il 7 per cento mora (musulmana) e il restante diviso tra burghers olandesi e veddah, i primi abitanti dell'isola, già presenti nel III secolo a.C. La regione diviene così sempre più un terreno di coltura per movimenti di guerriglia.

Ed ecco che nel 1948 quando l'isola di Ceylon diventa indipendente (ora è repubblica presidenziale con una popolazione composta per due terzi da cingalesi e con una forte minoranza tamil) la polveriera è pronta ad esplodere: ai tamil vengono subito tolti i diritti civili. Entra in scena il governo di Solomon Bandaranaike che – manifestando una totale incapacità di comprendere la realtà - prosegue sulla scia nazionalista. Nel 1956 il cingalese diviene, per decreto, unica lingua ufficiale, come il buddismo unica religione. Poi, alle prime aperture per la minoranza tamil, Bandaranaike è ucciso da un monaco buddista (1959); Srimavo, la vedova, ne prende il posto, diventando la prima donna primo ministro del mondo.

Alterne sono poi le vicende politiche che si caratterizzano con una molteplicità di prospettive. Tra cui la vittoria del “United National Party” (favorevole a una certa apertura ai tamil) che traghetta il paese fino agli anni settanta quando le tensioni etniche incendiano definitivamente l'isola. Esplode – nel contesto di visioni nostalgiche - la contestazione marxista con la creazione del gruppo del Jvp (Fronte di liberazione popolare) di Rohana Wijewera, detto "il Che Guevara d'oriente". Nel 1972 Ceylon si autoproclama Sri Lanka nel solco della tradizione nazionalista e promuove leggi per la diffusione dell'unica religione di stato: il buddismo. Nascono i primi gruppi clandestini (Nuove tigri Tamil) per la liberazione dell'Eelam (patria, in tamil); nel 1976 prende piede il movimento armato del Ltte sotto la guida di Vellupilai Prabahkaran.

I Tamil fanno sentire la loro voce sul versante politico: nel 1977 il loro partito separatista dimostra la propria identità e vince tutti i seggi nell'area di Jaffna, la penisola a nord ovest. Poi gli anni ottanta diventano teatro di una dolorosa guerra aperta, che ha la sue scintille nell'uccisione di tredici soldati cingalesi e nel pogrom di 600 tamil. Il governo di Colombo attua una durissima repressione che ha il volto nero della pulizia etnica: 65mila tamil abbandonano l'isola per trovare riparo in India, dove sono accolti in 113 campi profughi. L’impatto è sconvolgente. Si acuisce anche il conflitto con la minoranza musulmana che patirà l'esodo di 100milapersone.

Ma anche le strategie dei separatisti tamil sono altrettanto efferate: una violenta guerriglia stronca ogni tentativo dei governativi di controllare il nord est dello Sri Lanka; numerosi attentati, anche suicidi, seminano il panico nella capitale Colombo. Le trattative di pace - messe in piede nel 1985 - non portano ad alcun risultato: si continua a combattere nel clima di una turbinosa modernizzazione. Dopo la creazione di alcune aree a controllo tamil, entra in scena anche l'India, fortemente contrastata da entrambe le fazioni, con l'invio di una forza di “peacekeeping” che rimarrà sul terreno fino al 1990. Tutto avviene con paramilitari nazionalisti cingalesi e i comunisti del Jvp che combattono e compiono attentati contro l'accordo indo-lankese.

Gli attentati tamil si susseguono, sponsorizzati dai sostenitori fuoriusciti ai quattro angoli del mondo: forti dei contributi economici degli esuli all'estero, che vengono utlizzati per fornire armi e approvvigionamenti, i tamil si scatenano contro aeroporti, redazioni giornalistiche, centri religiosi e politici. Il governo continua la repressione, durissima, ma inefficace nel piegare i ribelli, che invece tengono posizione, nonostante vengano schedati nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da Gran Bretagna e Stati Uniti. I nodi, comunque, si fanno sempre più complicati mentre si distrugge il presente senza chiedersi cosa avverrà dopo.

Nel 1995 falliscono i nuovi colloqui di pace: una bomba esplode e ferisce gravemente il presidente Chandrika Kamaratunga, figlia di Bandaranaike. Dal 2000 la Norvegia si prende carico di far da mediatrice alla guerra infinita tra cingalesi e tamil: nel 2002 Oslo ottiene il risultato di uno storico cessate il fuoco, che, per quanto poco rispettato, regge, almeno sulla carta. In pratica si accettano le “cose” così come sono. Dal canto suo la diplomazia internazionale parla già di ricostruzione: World Bank, Fondo Monetario Internazione, Giappone, Stati Uniti e Ue staccano gli assegni, ma gli incidenti si moltiplicano. Navi tamil e della marina militare lankese colano a picco, il disarmo è lontano e sul piano politico solo la ventilata autonomia della regione del nord est tiene in vita la speranza di pace. La recente (aprile 2003) esclusione della dirigenza del “Ltte” alla riunione dei donatori di Washington fa saltare le trattative giunte alla settima tornata, programmata in Thailandia.

Il protrarsi degli scontri indebolisce un'economia già in contrazione dal 2001, fiaccando una delle grandi risorse che è il turismo e che dovrebbe maturare più in fretta della maturità politica. L'assistenza di Stati Uniti e Giappone, grazie alla posizione strategica dell'isola, fa sì che il paese non precipiti nella miseria, ma il dramma della guerra ha già spezzato intere generazioni. A partire dai bambini, traumatizzati dal conflitto, come parte passiva degli orrori, e attiva quando arruolati da milizie senza scrupolo.

Il teatro del conflitto assume sempre più le caratteristiche di un grande mosaico di politica internazionale. Entrano in gioco molte diplomazie asiatiche. E mentre si parla di eventuali trattative tra le parti esplodono i problemi relativi alla sede di questi possibili incontri. Il governo dice che i negoziati devono tenersi in Sri Lanka o in un altro Paese asiatico. Le Tigri, invece, propongono l’Europa perché temono che Colombo stia cercando di emanare un bando contro il loro movimento. Quindi se i colloqui si svolgessero nel vecchio continente, il movimento ribelle apparirebbe un partito credibile per i Paesi europei, tranne però per la Gran Bretagna che ha già emesso il bando da tempo.

Il regime di Colombo, comunque, continua a insistere per una sede asiatica dei negoziati. Sapendo anche che le Tigri godono di un grande supporto, soprattutto in Norvegia, Svizzera e Francia. Diversi tamil inviano soldi da questi Paesi, attraverso gli attivisti del “Ltte” per permettere alle Tigri di comprare armi e per mantenere i loro quadri. I ribelli temono, in questo contesto, che un eventuale bando possa indebolire la loro rete. C’è comunque in tutte le parti in campo, una situazione di concreta impotenza. Ci sono carenze strategiche e travagli ideologici insuperabili. E così – ancora una volta - parlano le armi.

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