La guerra scatenata da Israele il 7 ottobre scorso ha registrato in questi mesi il susseguirsi di cambiamenti degli equilibri nei rapporti tra paesi e blocchi rivali in Medio Oriente, quasi sempre, almeno in prospettiva, a sfavore dello stato ebraico. L’ultima di queste dinamiche è l’operazione portata a termine nel fine settimana dal governo di fatto dello Yemen, guidato dal movimento Ansarallah (“Houthis”), in grado molto probabilmente di colpire Tel Aviv con un’arma di cui né Israele né gli Stati Uniti al momento posseggono.

Sulla notizia restano le interpretazioni contrastanti delle autorità di Yemen e Israele. Il regime di Netanyahu ha smentito che a cadere nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion nelle prime ore di domenica sia stato un missile ipersonico. Il portavoce delle forze armate yemenite, invece, ha fornito dettagli per supportare la tesi dell’attacco precisamente con un ordigno di questo genere. Il missile avrebbe coperto più di duemila chilometri in appena 11 minuti e mezzo. Una volta rilevata la minaccia, l’allarme aereo israeliano sarebbe scattato su un’area piuttosto ampia, ma i dispositivi contraerei dello stato ebraico non sono stati in grado di intercettare il missile.

 

Secondo la versione yemenita sarebbe stato colpito un sito militare a sud di Tel Aviv. Per Israele, al contrario, il missile è caduto su un’area deserta senza provocare danni. Solo sei persone sarebbero rimaste ferite mentre cercavano di raggiungere i rifugi anti-aerei. Fonti di stampa israeliane hanno tuttavia anch’esse confermato, in base ai tempi di impatto stimati, che il raid è stato condotto con un missile ipersonico. Un’eventualità supportata anche dal fatto che il razzo è passato indisturbato sopra i dispositivi di difesa degli Stati Uniti stazionati nel Mar Rosso, oltre a quelli, come già ricordato, di Israele (“Iron Dome” e “Arrow”).

I missili ipersonici sono tra gli ordigni più sofisticati oggi in circolazione e rappresentano uno strumento particolarmente efficace per via appunto delle difficoltà dei sistemi antiaerei ad intercettarli vista la velocità ben al di sopra di quella del suono a cui possono viaggiare. Assieme al fattore velocità, i missili ipersonici hanno un alto livello di manovrabilità, che li rende ancora più letali, indifferentemente dalla disponibilità di batterie antiaeree avanzate del paese bersaglio. La Russia è all’avanguardia in questo settore, come ha dimostrato più volte nel corso della guerra in corso in Ucraina. Anche Cina e Iran hanno in dotazione missili ipersonici, mentre gli USA continuano a incontrare ostacoli nella fase di progettazione.

Lo scorso marzo e poi ancora a giugno, il governo di Ansarallah aveva presentato pubblicamente due missili ipersonici a lungo raggio che sosteneva di avere prodotto autonomamente. Tuttavia, molti analisti ritengono improbabile che un paese in gravi difficoltà economiche, politiche e sociali come lo Yemen sia stato in grado di raggiungere un simile risultato. Resta perciò l’ipotesi che a fornire a Sana’a il missile piovuto domenica in Israele sia stato un altro paese. L’indiziato principale è ovviamente l’Iran, che ha comunque subito provveduto a rilasciare una ferma smentita.

Al di là della provenienza del missile in questione, il blitz di Ansarallah nel fine settimana segna un salto qualitativo potenzialmente cruciale, soprattutto perché arriva in un frangente delicatissimo per Israele. L’illusione di possedere un deterrente efficace contro i nemici e sistemi di difesa virtualmente impenetrabili è crollata a poco a poco nel corso della guerra. Una falsa sicurezza minata già da tempo da Hezbollah lungo il fronte settentrionale e ora ancora più a rischio dai progressi del governo della resistenza yemenita.

È abbastanza evidente che né Israele né gli Stati Uniti e i loro alleati in Occidente si aspettavano un’iniziativa di questo genere da parte di Ansarallah. Ciò aggiunge un’ulteriore complicazione alla crisi, tenendo in considerazione che le forze yemenite già avevano raggiunto con droni il territorio israeliano, mentre in altre occasioni a essere colpiti con missili erano stati i porti di Haifa ed Eilat. Com’è noto, inoltre, lo Yemen ha iniziato da molti mesi un’operazione militare volta a ostacolare i traffici commerciali navali nel Mar Rosso da e per Israele.

Netanyahu ha promesso una risposta durissima contro lo Yemen e in effetti lo scorso mese di luglio Israele aveva già colpito il porto di Hodeidah come ritorsione per un attacco di Ansarallah, causando ingenti danni agli impianti petroliferi della città affacciata sul Mar Rosso. Il problema per lo stato ebraico è però che le opzioni a propria disposizione risultano limitate e le sue forze sono disperse su fronti che continuano ad allargarsi senza ottenere i risultati sperati: da Gaza alla Cisgiordania, dal Libano allo Yemen e potenzialmente all’Iran.

Quasi un anno di una campagna militare guidata dagli Stati Uniti per neutralizzare la minaccia yemenita contro le rotte marittime in Medio Oriente non ha dato a sua volta frutti, così come la resistenza di Hamas nella striscia è tutt’altro che piegata. Una realtà che difficilmente può essere cambiata da Israele, che tutt’al più si ritrova da domenica con la prospettiva di un’escalation dallo Yemen con missili in grado di superare le difese aeree e colpire obiettivi ultra-sensibili.

L’evoluzione del conflitto nella regione, scatenato dal genocidio palestinese, segna per Israele anche l’impossibilità di tenere separati i vari fronti di crisi. Allo stesso tempo, gli obiettivi impossibili fissati da Netanyahu dopo l’operazione di Hamas del 7 ottobre impongono un allargamento del conflitto, che minaccia conseguenze insostenibili per lo stato ebraico. Il caso libanese è in questo senso peculiare. Tel Aviv, assieme a Washington, ha cercato in tutti modi di arrivare a un accordo con Hezbollah per stabilizzare il fronte settentrionale, così da permettere a circa 100 mila coloni di tornare nelle loro abitazioni e di liberare risorse per intensificare l’assalto a Gaza e in Cisgiordania.

Hezbollah ha invece respinto ogni tentativo di sganciare lo scontro con Israele dagli eventi della striscia, alzando progressivamente il livello della risposta alle provocazioni sioniste. Stretto tra la minaccia del partito-milizia sciita libanese e le pressioni dei coloni a corto di pazienza, Netanyahu e il suo gabinetto hanno deciso nella notte tra lunedì e martedì di mettere il ritorno di questi ultimi nelle terre al confine con il Libano tra gli obiettivi della guerra. In questo modo, il rischio di una guerra aperta con Hezbollah aumenta pericolosamente, ma si tratterebbe di un conflitto che Israele non è in grado di vincere.

Nemmeno con l’appoggio diretto degli Stati Uniti l’asse della resistenza sembra potere essere sconfitto. Proprio il caso dello Yemen lo testimonia a sufficienza. Quasi un anno di campagna militare contro il territorio controllato dal governo di Ansarallah non solo non ha fermato le operazioni a sostegno dei palestinesi, ma non ha impedito nemmeno i progressi in ambito militare dello Yemen, come ha confermato il probabile lancio su Israele di un missile ipersonico nel fine settimana.

La nuova arma di Ansarallah minaccia così di aprire uno scenario di guerra qualitativamente diverso in concomitanza con l’eventuale escalation israeliana in Libano, a testimonianza della compattezza del fronte della resistenza nonostante il mantenimento di un’ampia libertà di manovra dei vari attori che ne fanno parte.

Uno scenario, quello davanti a Netanyahu, che sta creando non poca instabilità dentro l’apparato di potere sionista. Instabilità che si manifesta con l’aggravarsi delle tensioni politiche, ad esempio sulla questione libanese. Il comandante delle forze settentrionali dello stato ebraico ha esortato il governo nel fine settimana ad aprire il fronte con Hezbollah, dal momento che le condizioni sul campo sarebbero favorevoli alla creazione di una zona cuscinetto in Libano per costringere Hezbollah ad arretrare e permettere il ritorno dei coloni.

Un’opinione non condivisa da altri ai vertici militari, come il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Quest’ultimo continua a opporsi a un’operazione su vasta scala contro Hezbollah, temendo i limiti delle forze armate e della società israeliane, nonché le conseguenze sulla guerra con Hamas, non da ultima la sorte dei prigionieri ancora nelle mani del movimento di liberazione palestinese. Per questa ragione, secondo la stampa ebraica, Netanyahu starebbe valutando l’ipotesi di licenziare Gallant, per sostituirlo con l’ex Likud Gideon Saar, considerato fino a poco tempo fa una vera e propria nemesi del premier e ora pronto invece alla riconciliazione.

L’arroganza e l’ostentazione di sicurezza di Netanyahu non risolvono in ogni caso i dubbi e i punti deboli di Israele emersi in questi mesi. La crisi in Medio Oriente sembra ad uno stadio così avanzato da rendere quasi del tutto impraticabile un’opzione diplomatica. L’intensificazione dello sforzo bellico israeliano per arrivare a obiettivi impossibili rischia però di affondare definitivamente il governo di Tel Aviv o, nella peggiore (o migliore) delle ipotesi, lo stesso progetto criminale sionista.

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