Con l’intensificarsi della violenza israeliana a Gaza e in Cisgiordania, i governi dei paesi arabi e musulmani in genere si sono visti costretti a denunciare pubblicamente, spesso in maniera molto decisa, la strage di palestinesi per mano del regime sionista. Dietro le apparenze, però, molti di questi paesi non solo non hanno fatto finora nulla per cercare di fermare il genocidio in corso, ma stanno addirittura favorendo le operazioni militari dello stato ebraico. È infatti grazie alla loro collaborazione che i traffici commerciali da e per Israele proseguono quasi indisturbati nonostante la guerra e il blocco del Mar Rosso da parte del governo di Ansarallah (“Houthis”) in Yemen, di fatto l’unico paese arabo ad appoggiare concretamente la resistenza e il popolo palestinese.

 

Il sito libanese in lingua inglese The Cradle ha definito il gruppo di paesi musulmani che facilitano i crimini di Israele come “Asse della Normalizzazione”, in contrapposizione appunto all’Asse della Resistenza che, in varia misura, si è mobilitato a favore dei palestinesi nella striscia. Il comportamento di alcuni dei paesi che collaborano con Tel Aviv è influenzato dall’aggravante del loro asservimento agli Stati Uniti, di cui difendono gli interessi in Medio Oriente. La dimostrazione di questa realtà risiede principalmente nei numeri relativi agli scambi commerciali registrati nel corso del 2024. L’aumento in alcuni casi vertiginoso dei movimenti di merci tra Israele e i paesi in questione è cioè l’effetto del dirottamento dei traffici che prima passavano via mare dal Mar Rosso verso le rotte di terra che attraversano ora Arabia Saudita e Giordania.

Il paese che registra il dato più clamoroso è il Bahrein, dove ha incidentalmente sede una gigantesca base della marina militare USA. Le importazioni israeliane dal Bahrein, tra gennaio e luglio, sono salite del 1.162% rispetto allo stesso periodo del 2023. Il tutto mentre le autorità hanno preso iniziative di facciata per denunciare il genocidio palestinese. Il parlamento dell’emirato ha approvato ad esempio una risoluzione di condanna formale nei confronti di Israele e i rispettivi ambasciatori sono rientrati da tempo in patria.

Un altro paese chiave per Israele sono gli Emirati Arabi Uniti che, come il Bahrein, hanno sottoscritto i cosiddetti Accordi di Abramo, promossi da Trump, per normalizzare le relazioni con Tel Aviv. Nel corso del 2024, Israele ha importato beni dagli Emirati per una quota superiore di oltre il 14% rispetto all’anno scorso. I porti di questo paese arabo sono determinanti nel ricevere prodotti destinati successivamente via terra verso Israele, così come consentono all’export israeliano di tenere il passo malgrado la guerra. Gli Emirati svolgono anche un ruolo politico importante per Israele nel quadro della crisi a Gaza, dal momento che cooperano con lo stato ebraico e il governo USA nel pianificare gli scenari post-bellici, oltre a negoziare con Hamas un possibile accordo per la liberazione dei prigionieri israeliani ancora nelle mani del movimento di liberazione palestinese.

Le statistiche ufficiali smascherano anche la doppiezza dell’Egitto del presidente-dittatore al-Sisi. La condotta del regime è meno sorprendente se si considera che l’Egitto è legato a Israele dal trattato di pace del 1979. La vicinanza geografica tra i due paesi contribuisce a questa dinamica e alcuni porti egiziani sul Mediterraneo sono diventati veri e propri “hub” dei traffici commerciali con lo stato ebraico. Anche in questo caso i numeri sono chiarissimi. Tra il 2023 e questi mesi del 2024 le importazioni israeliane dell’Egitto sono salite del 16% e le esportazione di quasi il 130%.

L’Egitto rischia di pagare molto cara la passività davanti all’orrore causato a Gaza da Israele. I termini dell’Accordo di Camp David rischiano infatti di saltare, in particolare a seguito dell’insistenza di Netanyahu nel mantenere il controllo del confine tra Egitto e Gaza. La popolazione egiziana, inoltre, come quella di tutti gli altri paesi arabi e musulmani della regione, è costantemente sull’orlo della rivolta e chiede iniziative concrete per fermare il genocidio palestinese.

Il presidente al-Sisi ha d’altra parte enormi interessi nel preservare la stabilità dei rapporti con Tel Aviv. Dagli Stati Uniti riceve ingenti somme sotto forma di “aiuti” militari, nonostante qualche polemica sulle tendenze repressive del regime. Probabilmente non in maniera casuale, proprio in questi giorni Il Cairo è stato ricompensato dall’amministrazione Biden con lo sblocco di un finanziamento di 320 milioni di dollari che, per la prima volta dal 2021, il dipartimento di Stato non ha vincolato alla richiesta di miglioramento del clima relativo ai diritti umani nel paese. In ognuno dei tre anni precedenti, invece, la Casa Bianca aveva sospeso tra gli 85 e i 130 milioni di dollari in “aiuti” proprio per via della situazione interna.

La dinamica descritta interessa non solo i paesi della regione. Il Marocco, ad esempio, ha visto aumentare di oltre l’81% il volume degli scambi commerciali con Israele nel corso del 2024, peraltro perfettamente in linea, come ha rilevato sempre il sito The Cradle, con la tendenza in atto prima della guerra a Gaza, influenzata ancora una volta dalla firma degli Accordi di Abramo.

Un caso particolare è quello della Turchia. Il presidente Erdogan è a parole tra i più feroci accusatori di Netanyahu, tanto da arrivare a minacciare a fine agosto un intervento militare contro Israele per fermare la strage a Gaza. Sotto pressione sul fronte interno, il governo turco aveva ordinato a maggio lo stop a tutte le esportazioni verso Israele, ma la decisione anche in questo caso è risultata essere un espediente solo per smorzare le critiche.

Alcuni dati recenti dell’associazione degli esportatori turchi sono infatti apparsi molto sospetti. Le merci vendute nei territori occupati palestinesi (Cisgiordania) nei primi otto mesi del 2024 è aumentata del 423%, ovvero da 77 milioni di dollari nel 2023 a 403 milioni quest’anno. Nel solo mese di agosto la crescita è stata addirittura del 1.156% (da 10 milioni a 127 milioni di dollari). I beni che prima finivano direttamente in Israele ora vengono quindi esportati come se la destinazione finale fossero i territori occupati palestinesi. Da qui, invece, arrivano allo stato ebraico.

Questo meccanismo è particolarmente assurdo e cinico, poiché l’incremento sbalorditivo di esportazioni nominalmente destinate alla Palestina avverrebbe in una situazione nella quale il regime di Netanyahu ha congelato i fondi per le autorità che controllano la Cisgiordania, quindi nemmeno in grado di pagare le importazioni.

Queste stesse modalità per aggirare le proprie regole, la Turchia le sta utilizzando anche con la Grecia, su cui si appoggiano gli esportatori turchi per fare arrivare le loro merci allo stato ebraico. Ankara continua infine a rifiutarsi di prendere un altro provvedimento che penalizzerebbe drasticamente Israele, vale a dire lo stop delle forniture di petrolio che dall’Azerbaigian transitano per il porto turco di Ceyhan.

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