L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove.

La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, relativo alla legittima difesa, in quanto avvenuto dopo un attacco a tutti gli effetti contro il territorio dell’Iran, cioè il bombardamento della rappresentanza diplomatica di quest’ultimo paese a Damasco il primo aprile scorso.

 

Il primo fattore da considerare è poi l’obiettivo iraniano, che in nessun modo era di causare danni su ampia scala né di favorire un allargamento del conflitto in Medio Oriente. Gli avvertimenti da parte di Israele e alleati che avevano preceduto l’attacco e i proclami registrati subito dopo circa il fallimento dell’operazione iraniana lasciavano intendere che Teheran puntava poco meno che a distruggere lo stato ebraico. Tuttavia, queste considerazioni stridono con le modalità con cui hanno agito i vertici della Repubblica Islamica.

L’offensiva era stata annunciata da giorni e, a ben vedere, è stata caratterizzata da un atteggiamento di estrema cautela. Oltretutto, anche se non ammesso ufficialmente, prima del lancio di missili e droni nella serata di sabato avevano avuto luogo trattative o quanto meno scambi di messaggi tra Teheran e Washington, verosimilmente per limitare le conseguenze della ritorsione iraniana.

I più stretti e importanti alleati di Israele, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno convalidato questa tesi tramite una raffica di dichiarazioni pubbliche nelle quali hanno “invitato” Netanyahu a desistere da altre iniziative militari contro l’Iran. Virtualmente in ognuno di questi appelli si è insistito sul fallimento iraniano, ragione in più per evitare ulteriori mosse che rischierebbero di infiammare la regione. In altri termini, a loro dire l’operazione è stata un completo fallimento; Israele non ha subito danni di rilievo; la crisi deve quindi ritenersi chiusa.

Non solo, l’amministrazione Biden ha recapitato in fretta al premier israeliano il messaggio che Washington non prenderà parte a un’eventuale reazione all’attacco di sabato. Stesso discorso vale per quei paesi arabi che hanno vergognosamente preso parte alla difesa di Israele, come la Giordania abbattendo droni e missili iraniani sopra i propri cieli o Arabia Saudita ed Emirati Arabi passando informazioni di intelligence sull’operazione di Teheran. Con ogni probabilità dopo essersi consultati con la Casa Bianca, questi regimi hanno escluso il loro contributo a una nuova operazione contro l’Iran.

Secondo il New York Times, Netanyahu aveva già pronti i piani per un’iniziativa militare, ma avrebbe desistito in seguito a un colloquio telefonico con Biden. Il presidente americano ha consigliato, forse ironicamente, all’alleato di “tenersi la vittoria”, in conseguenza probabilmente di una più o meno tacita intesa con Teheran e dopo che il governo iraniano aveva dichiarato chiusa la questione iniziata con il bombardamento illegale della propria ambasciata in Siria. La componente radicale nel gabinetto Netanyahu è comunque  molto influente e le discussioni sono ancora in corso per decidere possibili azioni militari contro l’Iran.

È essenziale sottolineare, come ha fatto in un’intervista a SputnikNews l’ex ispettore ONU Scott Ritter, che Biden non ha agito per ingraziarsi l’Iran o per un sentimento di “amicizia” nei confronti della Repubblica Islamica, ma perché “comprende le conseguenze” che deriverebbero da un attacco israeliano. In sostanza, aggiunge l’analista militare americano, l’operazione iraniana ha agito da “deterrente” a ulteriori iniziative contro Teheran.

Le forze armate israeliane hanno sostenuto che il 99% di missili e droni lanciati dalla Repubblica Islamica sono stati intercettati e abbattuti con l’aiuto di USA, Francia, Gran Bretagna e Giordania. Questo livello di efficacia sembra essere smentito dai video circolati in rete che hanno mostrato un numero consistente di esplosioni in varie località di Israele. Il governo di Tel Aviv ha confermato solo alcuni danni minori alla base militare di Nevatim, situata nel deserto del Negev e presa di mira perché da qui erano partiti gli F-35 che avevano colpito la rappresentanza diplomatica iraniana a Damasco.

In rete si è diffusa anche la notizia che l’Iran avrebbe fatto uso di missili ipersonici, i nuovi Fattah-2 con una gittata dichiarata di 1.500 chilometri, non intercettati dai sistemi difensivi israeliani né da quelli degli alleati. Il governo di Teheran non ha però confermato, ma ha anzi insistito che gli ordigni utilizzati erano in genere a basso costo e non particolarmente sofisticati. La differenza di costi sostenuta nell’operazione del fine settimana è stata infatti enorme. Secondo fonti militari di Israele, i soli equipaggiamenti impiegati dallo stato ebraico per far fronte all’attacco iraniano, cioè senza considerare l’intervento degli alleati occidentali e arabi, sono costati più di 1,3 miliardi di dollari, circa dieci volte in più rispetto alla spesa sostenuta dalla Repubblica Islamica.

Al di là dei danni materiali, l’attacco è stato in definitiva poco più che dimostrativo, con il quale è stato però recapitato un messaggio chiarissimo: se lo stato ebraico dovesse scegliere l’escalation dello scontro, l’Iran sarebbe pronto a colpire di fatto ogni angolo del territorio israeliano. E il successo o presunto tale nell’intercettare missili e droni lanciati sabato scorso difficilmente potrebbe ripetersi in una seconda ondata in grado di saturare i cieli israeliani. Molto dubbia sarebbe infatti la sostenibilità della difesa di Israele e dei suoi alleati, sia in termini di costi sia di capacità specifiche, soprattutto se si considera che, nel corso dell’attacco, Teheran ha ricavato importanti informazioni sui sistemi utilizzati dai propri nemici.

Questo scenario non include nemmeno altri aspetti come il problema puramente geografico per Israele di “coprire” un paese trenta volte più grande in termini di superficie, per non parlare, salvo il ricorso alle armi atomiche mai dichiarate e a disposizione di Tel Aviv, delle difficoltà nel distruggere quelli che in teoria sarebbero gli obiettivi principali, ovvero i siti nucleari sottoterra.

La Repubblica Islamica potrebbe avere così cambiato l’equazione strategica in Medio Oriente, creando a Israele un dilemma difficilmente risolvibile. La questione del “deterrente” contro i nemici regionali è un elemento alla base del progetto sionista e per ristabilire la situazione precedente, scardinata dall’attacco del fine settimana, Tel Aviv ha bisogno di riprendere in mano l’iniziativa. Da qui, l’agitazione dentro l’estrema destra israeliana, ma anche tra i “falchi” filo-sionisti negli USA, per una punizione da infliggere al più presto all’Iran.

Già lo scenario attuale ha però mostrato come Israele non sia in grado di sostenere una guerra su più fronti. La notte di sabato scorso è stata la prima dal 7 ottobre scorso senza bombardamenti su Gaza e un’ulteriore escalation dello scontro provocherebbe un’azione ancora più massiccia da parte iraniana, assieme all’intervento su scala non ancora sperimentata finora del resto dell’asse della Resistenza, in primo luogo di Hezbollah dal Libano.

Le dimensioni del risultato strategico ottenuto dall’Iran sono quindi difficili da sopravvalutare. Con la guerra criminale nella striscia che ancora non ha raggiunto un solo obiettivo di quelli fissati dopo la clamorosa azione di Hamas, per Netanyahu le opzioni sembrano restringersi rapidamente. Lo schiaffo subito dal nemico storico rischia di scatenare iniziative irrazionali che potrebbero fare esplodere il Medio Oriente. Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno disposti a farsi trascinare in un conflitto rovinoso o se decideranno finalmente di mettere un freno al premier israeliano, gettando le basi, nella più ottimistica delle ipotesi, anche per la risoluzione della questione palestinese.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy