Il governo americano continua a ostentare preoccupazione per l’andamento della guerra genocida di Israele a Gaza, sostenendo di adoperarsi per cercare una de-escalation della crisi e convincere il regime di Netanyahu a ridurre i bombardamenti indiscriminati che stanno facendo strage di civili palestinesi. Nel concreto, tuttavia, l’appoggio dell’amministrazione Biden allo stato ebraico resta fermissimo e si è addirittura concretizzato questa settimana nella creazione di una “task force” navale per contrastare la crescente minaccia, da parte del movimento yemenita Ansarallah (“Houthis”), alle rotte commerciali nel Mar Rosso che interessano Israele e non solo.

La dichiarazione ufficiale con cui lunedì dal Bahrein il segretario alla Difesa USA, Lloyd Austin, ha annunciato il lancio del nuovo progetto (“Operazione Guardiano della Prosperità”) ha fatto riferimento all’imperativo di salvaguardare la libertà di navigazione e i flussi commerciali globali. Isolando alcune frasi del comunicato del capo del Pentagono si potrebbe pensare che le attività da contrastare siano quelle criminali di Israele a Gaza. Secondo Austin, quando sta accadendo mette infatti in pericolo vite “innocenti e viola il diritto internazionale”. Si tratta perciò di una “sfida internazionale che richiede azioni collettive”.

 

Ovviamente, il riferimento non è alla violenza fuori controllo del regime sionista, ma appunto al lancio di missili e droni dallo Yemen contro navi commerciali israeliane e di compagnie di svariati paesi per sostenere la resistenza palestinese. Nei giorni scorsi, Ansarallah ha intensificato le operazioni contro le imbarcazioni che transitano dallo stretto di Bab el-Mandeb, che collega il Golfo di Aden al Mar Rosso verso il Canale di Suez. Un numero sempre maggiore di compagnie di trasporti, tra cui colossi come l’italo-elvetica MSC, la danese Maersk, la tedesca Hapag-Lloyd e la francese CMA CGM, hanno deciso di spostare i loro traffici da questa rotta a quella molto più lunga che passa dal Capo di Buona Speranza in Sudafrica.

Per evitare i missili yemeniti e costi di assicurazioni moltiplicati in poche settimane, le navi commerciali impiegano molti più giorni per arrivare a destinazione, facendo lievitare il prezzo delle spedizioni e causando ritardi nella catena globale di approvvigionamenti. Non sono solo le merci a essere interessate, ma anche petrolio e gas liquefatto (LNG). Secondo alcune stime, quasi nove milioni di barili di greggio transitano ogni giorno dallo stretto di Bab el-Mandeb. A farne le spese in termini di costi e ritardi, oltre a Israele, sono soprattutto i paesi europei.

Le operazioni di Ansarallah fanno seguito all’avvertimento che i leader del movimento che controlla parte del territorio dello Yemen avevano inviato a Tel Aviv e Washington. Se Israele non avesse cessato l’aggressione contro la striscia di Gaza, gli “Houthis” avrebbero preso di mira le navi israeliane o dirette da e per Israele in transito nel Mar Rosso. Gli Stati Uniti, invece di fare pressioni su Netanyahu per fermare la strage di civili palestinesi e abbassare le tensioni in Medio Oriente, hanno deciso di coinvolgere gli alleati europei e i paesi arabi in un progetto volto alla difesa degli interessi economici e strategici dello stato ebraico.

Da un lato, quindi, la Casa Bianca pretende di lavorare per evitare l’allargamento del conflitto nella regione, mentre dall’altro lancia una coalizione navale internazionale nel Mar Rosso che rischia di provocare un’esplosione di nuove violenze difficile da controllare. In molti hanno evidenziato come la decisione americana, nonostante la retorica, sia la testimonianza più lampante dell’appoggio incondizionato di Washington a Israele nella guerra in corso. L’annuncio di Austin segue d’altra parte la minaccia di settimana scorsa del direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, Tzachi Hanegbi, il quale, in riferimento alla campagna militare di Ansarallah nel Mar Rosso, aveva avvertito che, se la comunità internazionale, “non si occuperà [degli Houthis], lo faremo noi”.

La “task force” navale promossa da Washington risponde però anche ad almeno due obiettivi americani collegati all’attuale crisi in Medio Oriente. Il primo lo ha spiegato un’analisi pubblicata martedì dal sito libanese in lingua inglese The Cradle. La coalizione sembra cioè una mossa americana per “affrontare la questione Yemen in maniera più diretta, dopo il fallimento della guerra di Arabia Saudita ed Emirati Arabi” degli ultimi otto anni.

In linea teorica, un’alleanza navale di questo genere già esiste nelle acque al centro delle mire degli USA, ovvero la cosiddetta “Joint Task Force 153”, creata un paio di anni fa e ufficialmente destinata a contrastare attività terroristiche e di contrabbando nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. A sua volta, la “Joint Task Force 153” rientra nel quadro di un’altra più ampia iniziativa multilaterale sotto il comando americano di cui fanno parte decine di paesi.

Queste missioni consentirebbero già in buona parte di contrastare le operazioni dallo Yemen, tant’è vero che le navi da guerra degli Stati Uniti, ma anche francesi e britanniche, hanno nei giorni scorsi abbattuto svariati missili e droni lanciati da Ansarallah e diretti sia in territorio israeliano sia contro navi commerciali nel Mar Rosso. È evidente quindi che Washington intenda disporre di uno strumento più potente con un “focus” sulla resistenza yemenita.

L’aspetto più allarmante è emerso dalla notizia pubblicata dal quotidiano libanese Al-Akhbar, secondo il quale l’amministrazione Biden avrebbe fatto pressioni sull’Arabia Saudita per respingere la bozza di accordo di pace con Ansarallah che sarebbe sul punto di essere finalizzata dopo otto anni di guerra nello Yemen. Washington vuole in altre parole impedire che i negoziati tra Riyadh e Sana’a vadano a buon fine per continuare a destabilizzare lo Yemen, convincendo i sauditi a entrare nella “task force” annunciata da Austin lunedì e, nel contempo, tenendo aperto un altro fronte dello scontro con l’asse della resistenza.

Quest’ultimo obiettivo ha a che fare chiaramente con l’Iran ed è il secondo fattore da considerare in merito alla “Operazione Guardiano della Prosperità”. Che Teheran sia al centro dei pensieri americani nella preparazione dell’iniziativa navale è confermato anche dai ripetuti riferimenti ai legami – veri o presunti – tra Ansarallah e la Repubblica Islamica.

La militarizzazione del Golfo di Aden, dello stretto di Bab el-Mandeb e del Mar Rosso punta a tutti gli effetti ad assicurare a Washington il controllo di uno spazio marittimo strategicamente fondamentale, visto che da qui passa circa il dieci per cento delle rotte commerciali internazionali. Inoltre, la questione si intreccia con il contenimento dell’Iran e il tentativo di indebolire tutto il fronte dell’opposizione anti-americana e anti-sionista, esattamente come USA e Israele si propongono di fare attraverso la guerra a Gaza.

Facendo un ulteriore passo, aggiunge il già ricordato articolo di The Cradle, la rafforzata presenza USA nel Mar Rosso si ricollega alla competizione con Russia e Cina – entrambe coinvolte in partnership strategiche con l’Iran – per imporre il proprio controllo sui “corridoi internazionali”, ma anche per garantirsi la “sicurezza energetica” e influenzare i “conflitti geopolitici in Asia occidentale”.

I risultati, come spesso accade, rischiano in ogni caso di essere molto diversi da quelli che si aspettano gli Stati Uniti. Quanto meno, l’operazione navale appena lanciata minaccia di aprire un nuovo fronte di guerra in parallelo a quelli nella striscia, nel sud del Libano, in Iraq e in Siria. I leader di Ansarallah, da parte loro, non appaiono intimiditi dall’iniziativa USA, tanto che martedì hanno minacciato di trasformare il Mar Rosso in un “cimitero” se la coalizione a guida americana dovesse attaccare il territorio yemenita.

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