di Agnese Licata

Per ora, il partito maggioritario sembra quello degli indecisi, che a pochi giorni dal voto conta percentuali che vanno dal 30 al 40 per cento. Da questo dato si deve partire per capire cosa sta succedendo nella Francia che domenica prossima andrà alle urne per scegliere il suo nuovo presidente. Non solo per ribadire quanto nessun sondaggio possa pensare, in questo momento, di anticipare il risultato delle elezioni di domenica prossima (né tanto meno quello del secondo turno fissato per il 6 maggio). Ma soprattutto, sottolineare quanto ancora sia ampio il partito degli indecisi, è utile per rendersi conto di quanto nessuno dei dodici candidati sia riuscito a interpretare la forte richiesta di rinnovamento che il popolo francese ha manifestato in più occasioni: con la rivolta delle banlieues, ma anche con il fallimento del referendum sulla Costituzione europea. Se a questo si aggiunge che, secondo una ricerca del Centre d’Etude de la Vie politique fran çaise, il 60 per cento dei francesi pensa che la nuova maggioranza - di destra o sinistra che sia – non avrà comunque la capacità di dare una svolta alla situazione del Paese, si può intuire il forte scetticismo che imperversa oltralpe. Gli elettori francesi vorrebbero risposte concrete ai problemi che più sentono impellenti, ma si scontrano con una campagna elettorale dove “le personalità dei candidati pesano spesso più delle idee”, come scrive Bernardo Valli su La Repubblica di lunedì scorso. Dove a prevalere è l’equilibrismo della socialista Ségolène Royal o l’astratto dibattito sui valori dell’ex ministro degli Interni Nicolas Sarkozy, senza contare i contrasti tra le fila dei rispettivi partiti - Ps e Ump (Unione per il movimento popolare) – e uno stillicidio della sinistra che tanto ricorda quella nostrana.

Le questioni concrete rimangono sullo sfondo. Su tutto, la disoccupazione che negli ultimi anni non è mai scesa al di sotto dell’8 per cento, con picchi del 20 per cento tra i giovani e la crescente diffusione del precariato. Una disoccupazione che è cronica nelle zone più marginali della Francia: a Clichy-sous-Bois – dove nell’autunno del 2005 è iniziata la guerriglia delle banlieues – un abitante su cinque non ha un lavoro.

È in zone come queste che si concentrano sans papiers, ma anche immigrati di seconda, terza generazione che, pur avendone i titoli, non sono ancora considerati francesi a tutti gli effetti. Un esperimento dell’Università di Parigi I ha dimostrato che chi ha un nome riconoscibilmente francese ottiene un colloquio di lavoro cinque volte più facilmente di chi ha un nome nordafricano.

Cosa ampiamente dimostrata dal fatto che una società storicamente così multiculturale come quella francese, non ha corrispondenza nelle sue sfere più alte: tra i banchi del Parlamento, ad esempio, non c’è neanche un rappresentante di colore. Tutto ciò che riguarda l’immigrazione viene spesso ridotto esclusivamente al problema della sicurezza, soprattutto riferendosi a quei 5 milioni di musulmani che rappresentano la più ampia comunità islamica d’Europa.

La posizione di Nicolas Sarkozy (figlio di un aristocratico ungherese) a questo proposito è chiara più nelle azioni che nelle parole. Come ministero degli Interni ha usato il pugno duro contro gli immigrati irregolari, aumentando i rimpatri ed evacuando le zone occupate abusivamente. Adesso propone, d’accordo con Le Pen, la creazione di un ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale, dimostrando, ancora una volta, di ridurre i problemi d’integrazione allo scontro di civiltà. Come si possa pretendere il furor patrio da chi non riesce a trovare un lavoro perché immigrato, da chi è condannato ai margini e alla povertà, non è dato saperlo.

Il candidato della destra, in ogni caso, è riuscito nell’incredibile: crearsi una nuova verginità nonostante abbia fatto parte del governo che ha guidato il Paese nell’ultimo quinquennio. Parla di necessaria rottura con la precedente politica, in campo lavorativo propone di ridurre la portata delle contestatissime 35 ore (esonerando dal pagamento degli oneri fiscali le ore eccedenti questo tetto) e del diritto di sciopero (obbligando a garantire un servizio minimo nel settore trasporti).
Se, come suggeriscono i sondaggi, dovesse essere proprio il leader dell’Ump a guadagnare l’Eliseo, a cambiare sarebbe anche la politica estera francese.

Negli ultimi mesi del suo mandato, infatti, Sarkozy ha avviato un processo di riavvicinamento con gli Usa. “È impensabile per l’Europa formare la propria identità in contrasto con gli Stati Uniti”, ha affermato. Insomma, una Francia a destra rischia di accentuare ulteriormente la mancanza d’indipendenza dell’Ue in politica estera rispetto alla Casa Bianca.

L’unica alternativa che abbia qualche possibilità di battere Nicolas Sarkozy è Ségolène Royal, esponente nel Ps, nonché moglie di Hollande, il leader del partito. La sua frase preferita ha, per un italiano, un sapore democristiano che lascia molti dubbi: “Abbiamo bisogno del giusto ordine”. Le proposte del suo programma in cento punti sono così tante che si fatica a non intravedere un intento propagandistico più che concreto: innalzare il salario minimo a 1.500 euro al mese; aumentare le pensioni più basse del 5 per cento; abolire i nuovi contratti flessibili introdotti dal governo di centrodestra a favore delle piccole imprese; creare 500mila posti di lavoro con sussidio per i giovani laureati; pagare per un anno tutte le spese sociali e previdenziali dei contratti che le aziende faranno a giovani non qualificati; costruire 120mila abitazioni l’anno per l’edilizia popolare; aumentare gli investimenti in ricerca e università.

Alla domanda “come finanzierà tutto questo?” non ha mai realmente risposto, se non accennando a una politica di riduzione degli sprechi. Ha sempre smentito di voler aumentare le tasse. Del resto, il programma del suo rivale Sarkozy punta proprio sulla riduzione delle tasse, soprattutto di quelle che colpiscono i redditi alti (come la tassa di successione), e la Royal non vuole certo alienarsi quei voti.

In compenso, le previsioni della candidata socialista parlano di una crescita al 2,5 per cento, ma, ancora una volta, non vengono indicate le strategie da adottare per invertire una tendenza che da dieci anni vede la crescita francese al di sotto della media europea (nell’ultimo trimestre del 2006 è stata superiore solo a quella del Portogallo) e che in termini di Pil pro capite ha visto scendere la Francia dal settimo al diciassettesimo posto negli ultimi 25 anni.

Sarà per questo che negli scorsi mesi l’iniziale fiammata di consensi che aveva trascinato la candidatura di Ségolène Royal si è esaurita. Di fronte alla mancanza di concretezza delle sue buone intenzioni, anche il fascino della prima presidente donna, elegante, madre di quattro figli ma non disposta a rinunciare ai propri studi e alla propria carriera non è più bastato. A questo si sono aggiunte le crescenti diffidenze interne alla sinistra stessa e tra i vari intellettuali. “Non appare né carne né pesce, né liberale come Blair né antiliberale come la sinistra della sinistra”: così parla di lei il politologo Gerard Grunberg. “Il trionfo del vuoto di fondo”, la definisce il filosofo Michel Onfray. E l'arrivo del Premier spagnolo Zapatero, che l'ha accompagnata in una manifestazione a Tolosa, non é detto sia sufficiente a darle una immagine di sinistra più convincente.

Terzo incomodo è poi il candidato di un partito che vanta solo 27 seggi sui 577 dell’Assemblea nazionale: François Bayrou, dell’Unione per la democrazia francese. Un centrista che ha provato a cercare sponde a destra come a sinistra, fallendo da entrambe le parti. Sarkozy ha preferito lasciare aperta un’alleanza con l’estrema destra di Le Pen (che placherebbe le ansie di sicurezza di molti), parlando di “candidatura del cinismo e dell’opportunismo” a proposito di Bayrou. Per i socialisti, poi, l’idea dell’alleanza, lanciata dal vecchio socialista Michel Rochard, è considerata blasfema. Il risultato è che Bayrou, terzo nelle intenzioni di voto, è una delle incognite più difficili da prevedere e stimare.

Insomma, per gli elettori francesi il quadro non è semplice. Vorrebbero un cambiamento radicale, di uomini e di idee. Vorrebbero alla guida del proprio Paese un uomo che abbia il coraggio di rompere con il passato, fare riforme importanti e porre così fine a un declino che sentono costante. Ma nessuno dei candidati sembra avere carisma, trasparenza, nettezza d’idee.

A prevalere, tra i più importanti politici francesi come anche tra quelli italiani, sembra essere un moderatismo che di nuovo ha solo il vestito della festa. E se queste sono le premesse, domenica prossima potrà davvero accadere di tutto, anche se adesso da più parti si dà in vantaggio Sarkozy. Cosa sceglierà di votare del 30-40 per cento d’indecisi nessuno può saperlo, come dimostrano le passate elezioni.

Nel 2002 la stessa insoddisfazione e delusione che imperversano oggi, fecero il gioco del candidato di estrema destra Jean Marie Le Pen. Al primo turno Le Pen sorprese tutti i pronostici ottenendo il 20 per cento dei voti, risultato che gli permise di battere il leader socialista Lionel Jospin e sfidare Jacques Chirac al ballottaggio. Allora, gli elettori di sinistra furono costretti a votare Chirac “turandosi il naso”, pur di fermare l’ascesa di un partito conservatore, xenofobo e antieuropeista come il Fronte nazionale.

Secondo analisti, esperti e sondaggisti, il fantasma Le Pen non dovrebbe ricomparire questa volta, non andando oltre il 17 per cento dei voti. Ma le incognite e le sorprese possono essere anche altre. Bisognerà aspettare domenica per saperlo.

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