L’incursione da terra, cielo e mare dell’esercito israeliano contro Gaza miete vittime civili in misura preponderante. Sono piovute 18.000 tonnellate di tritolo sulla Striscia di Gaza, più o meno 50 tonnellate per chilometro. Bersagli preferiti ogni essere umano, ogni installazione, con particolare predilezione per ospedali e ambulanze. Gli esponenti di Hamas che Tel Aviv dice di voler sterminare sono solo il bersaglio propagandistico, quello reale sono i palestinesi tutti. Lo conferma Dror Eydar, ex ambasciatore israeliano a Roma dal 2019 al 2022, in una trasmissione televisiva: “L’obiettivo è distruggere Gaza”, che definisce “il male assoluto”. Una pulizia etnica, la sostituzione etnica dei palestinesi con gli ebrei. Nulla che non fosse già chiaro, solo detto con rude franchezza, non si sa se involontariamente o no.

L’idea che abita nell’establishment israeliano continua ad essere una e solo una: l’apartheid non è più sufficiente per i nuovi appetiti del sionismo, serve l’eliminazione fisica dei palestinesi. Dati i costi al metro quadro dell’area, estirpata ai palestinesi e con modesti investimenti, Gaza può diventare un’area residenziale di Tel Aviv. Dunque farli fuori tutti affinché Israele possa accaparrarsi tutto. Quello che già c’è e quello che potrebbe esserci.


E non solo edilizia. Come hanno indicato diversi media in queste settimane, in profondità, esattamente 600 metri sotto il livello del mare, a 30 chilometri al largo delle sue coste, nelle acque territoriali palestinesi, c’è un grande giacimento di gas naturale, stimato in 30 miliardi di metri cubi per un valore di miliardi di dollari. Potrebbe portare elettricità e ricchezza nella Striscia e nel resto della Palestina, emancipando il Paese dagli aiuti umanitari internazionali.

Quando venne scoperto (2000), l'allora leader dell’Olp, Yasser Arafat, lo definì "un dono di Dio" al popolo palestinese per le generazioni a venire. Non considerava, forse, la voracità israeliana nel saccheggio di tutto quello che non è suo. Nelle intenzioni di Tel Aviv, infatti, i tre quarti del gas estratto dovrebbero andare a Israele e tutt’al più un quarto all’ANP, così ricordando che le fauci del paese più mantenuto al mondo non sono mai sazie.

Ma i tesori "negati" alla Palestina, secondo l'Onu, non finiscono qui: c'è il giacimento petrolifero di Meged, al confine tra Israele e Cisgiordania. Le Nazioni Unite sostengono che il giacimento vale 67 miliardi di dollari in mancati introiti per la Palestina. Tel Aviv lo ha reso produttivo dal 2010, sostenendo l'esclusività dei diritti di sfruttamento. L'Autorità palestinese, invece, reclama che sebbene le trivelle siano state poste in Israele, l'80% del giacimento è in Cisgiordania e che, pertanto, dovrebbe ricevere una corrispondente fetta degli introiti. Il risultato è che quei giacimenti e quei proventi non sono mai arrivati ai palestinesi, che continuano a dover sopravvivere tra i finanziamenti internazionali ammontanti ad una elemosina e l’arbitrarietà assoluta israeliana che ne stabilisce il se, il quando, il come e il dove debbano essere consegnati.

Ovviamente l’idea di sterminare i palestinesi riducendoli ad una icona della storia non ha radici nel bisogno del gas e del petrolio della Striscia, è insita dentro l’idea stessa della nascita e sviluppo dello Stato di Israele secondo il verbo sionista. Ma anche la questione dei giacimenti contribuisce ad alzare il tiro su Gaza, perché la possibile autonomia finanziaria dei territori contribuirebbe notevolmente allo sbocco politico e diplomatico del loro status. Considerando la penuria di gas a seguito delle sanzioni alla Russia, non si può non cogliere l’ambizione israeliana per mettere le mani su gas e petrolio di proprietà palestinese, che sarebbe in grado di contribuire in forma importante al mercato regionale della distribuzione degli idrocarburi, oltretutto relativizzando il valore delle riserve algerine ed impedendo lo sviluppo di quelle siriane, che continuano ad essere depredate dagli USA. Leggere la rappresaglia israeliana solo come la frustrazione per l’attacco subito sarebbe parziale, per certi versi ingenuo. C’è altro e di più.

 

Il voto dell’ONU

L’Assemblea Generale chiede l’immediato cessate il fuoco per ragioni umanitarie a Gaza. Una sconfitta pesantissima per Israele e per gli USA. Il voto riflette, nella sostanza e in dettaglio, lo stato del mondo. Nella casa della comunità internazionale, nel tempio della diplomazia, si leva il linguaggio più duro e franco contro i crimini di guerra. Annuncia il mutamento dei rapporti di forza tra Sud globale e Occidente collettivo e riduce a pura ipocrisia, a inganno non più percorribile, le menzogne con le quali i suoi interessi si spacciano per quelli di tutti.

Israele, come sempre, non ottempera alle decisioni dell’ONU e nessuno gliene chiede conto. Il paradosso politico è che l’ambasciatore israeliano all’ONU chiede le dimissioni di Guterres, quando è Israele che dovrebbe essere cacciata dall’Onu per violazione continuata e sistematizzata dei diritti dei palestinesi, per occupazione militare illegale dei loro territori e per reiterati crimini di guerra.

 

Cambiano alleanze e muta il quadro

L’appoggio dell’Occidente verso Israele è cosa nota. Senza esso Tel Aviv non sarebbe nata e men che mai cresciuta. Ma stavolta il meccanismo incontra difficoltà nel suo procedere in automatico, perché tale e tanta è la sproporzione della risposta bellica di Israele all’attacco di Hamas, che anche lo stesso Occidente trova difficoltà a giustificarla. Le mozioni delle Nazioni Unite vedono persino paesi UE votare a favore del “cessate il fuoco immediato” e negli stessi USA il Partito Democratico è spaccato. Le proteste di piazza in tutto il mondo contro il genocidio dei palestinesi isolano politicamente Israele come mai prima d’ora.

Assume poi particolare significato la posizione di paesi tradizionalmente legati all’Occidente come Turchia, Arabia Saudita e Qatar, Giordania, Marocco ed Egitto, che durissimi contro Tel Aviv modificano il quadro politico della regione e mandano in soffitta ogni ipotesi di alleanze trasversali utili ad isolare l’Iran, che Israele e USA considerano la peggior minaccia.

La Lega Araba si schiera unitariamente e senza distinguo al fianco di Gaza, Hamas parla con Mosca e conta non solo sul supporto forte dell’Iran e del Libano, ma anche sul sostegno concreto di Istambul. Il che rompe decisamente gli schemi, vista l’appartenenza di Istambul alla NATO, della quale è addirittura il secondo esercito più numeroso. Il sostegno alla causa palestinese e in particolare verso Hamas è una costante della politica estera turca e ha fruttato alla Turchia e in particolare ad Erdogan prestigio e reputazione in paesi estranei alla regione quali Pakistan, Afghanistan e in molti paesi dell’Africa subsahariana a maggioranza musulmana.

Erdogan, forte del ruolo offertogli da Mosca quale possibile hub continentale della distribuzione del gas russo, mette in discussione il progetto di gasdotto con Israele e si candida a rappresentare il mondo sunnita. La comune posizione con Teheran, che rappresenta quello sciita, pone le condizioni per un ritorno forte della causa palestinese tra i paesi arabi e di una sua funzione unificatrice delle diverse correnti del mondo musulmano.

In questo pur confuso riequilibrio politico della regione, quel che è certo è che i blocchi precedenti al 7 ottobre vacillano, lo strazio palestinese muove il terreno che si credeva stabilizzato. Il sacrifico di Gaza rende edotti sulle vere modalità dell’agire e sulle finalità che persegue Israele. La questione palestinese può innescare un gigantesco reset di schieramenti che cancellerebbe in buona parte la politica statunitense nella regione degli ultimi 30 anni e ridurrebbe Israele ad una sorta di Fort Alamo in versione mediorientale.

Per la Palestina si riaprono porte da tempo socchiuse, si risvegliano antiche solidarietà, rinascono affinità ed identificazioni con una causa che è insieme riscatto e dignità dovuta, giustizia e diritto di una nazione e di un popolo. Questo è e resterà il sogno e la battaglia di ogni palestinese, viva donde viva e quale che sia l’età. Generazione dopo generazione, fino alla liberazione.

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