Mentre il numero ufficiale dei morti sotto le bombe di Israele a Gaza ha superato quota 5.000, il governo del primo ministro Netanyahu sembra essere vicino a ordinare un’invasione nella striscia che rischia di trasformarsi in un massacro ancora più sanguinoso sia per i civili palestinesi sia per i militari del regime di occupazione. La reazione criminale al blitz lanciato con successo da Hamas e Jihad Islamica il 7 ottobre scorso ha messo lo stato ebraico in una situazione senza vie d’uscita facilmente percorribili. Un’operazione di terra appare di fatto inevitabile per raggiungere l’obiettivo fissato da Tel Aviv, vale a dire l’eliminazione delle forze della “Resistenza” palestinese, ma comporta allo stesso tempo rischi considerevoli che, dietro l’ostentazione di forza del regime sionista, agiscono in qualche modo da freno alle manovre militari.

 

È evidente che la possibilità di una tregua non viene per ora presa nemmeno in considerazione da Israele e, nonostante il bilancio di vittime e l’ondata di rabbia espressa per il genocidio in corso con manifestazioni di protesta in tutto il mondo, gli stessi Stati Uniti hanno escluso questa ipotesi. Secondo Washington non sarebbe infatti ancora il momento per un cessate il fuoco, dal momento che la sospensione delle operazioni militari lascerebbe pressoché intatta la “minaccia” di Hamas. L’unico risultato che Tel Aviv può accettare è il ristabilimento del deterrente contro la “Resistenza” palestinese e quindi la certezza di uscire vincitore da una guerra. Certezze entrambe svanite clamorosamente con l’offensiva di Hamas.

A complicare le cose per Israele è inoltre il fatto che il conflitto non sia limitato a Gaza e a Hamas, ma rischia di coinvolgere e, anzi, ha già in parte coinvolto altri attori regionali. In altri termini, la guerra non è solo contro Hamas e Jihad Islamica, ma contro Hezbollah, le milizie sciite in Iraq, gli Houthis (“Ansarallah”) in Yemen, ma anche la Siria e soprattutto l’Iran. Di conseguenza, la sola sconfitta di Hamas e delle altre organizzazioni armate palestinesi, qualora fosse possibile, non risolverebbe il dilemma israeliano, essendo necessaria anche quella delle altre componenti della “Resistenza”.

Un’analisi pubblicata dal sito libanese in lingua inglese The Cradle ha posto l’interrogativo circa la ragione dei ripetuti rinvii dell’operazione di terra a Gaza da parte israeliana, visto che questa opzione è a tutti gli effetti l’unica a disposizione per dichiarare vittoria e cancellare il trauma dell’attacco di Hamas. Le ragioni sono molteplici e le varie implicazioni di esse sono senza dubbio in corso di valutazione da parte dei vertici militari e politici dello stato ebraico.

La “Resistenza” palestinese a Gaza ha innanzitutto preparato a lungo questo conflitto ed è con ogni probabilità molto ben preparata per combattere sul campo i militari israeliani. Il capillare sistema di tunnel sotterranei nella striscia permette poi di preservare uomini e armi nonostante la massiccia campagna di bombardamenti che prosegue ormai da oltre due settimane. Questo scenario comporterebbe quindi un’operazione di lunga durata, creando seri problemi a Israele per quanto riguarda la continuità dei rifornimenti, l’evacuazione dei feriti e, soprattutto, il numero di soldati che cadrebbero sul campo.

Da considerare ci sono anche i costi economici di un’occupazione prolungata, così come l’esposizione sia dei militari stessi sia dei coloni e dell’intera popolazione israeliana agli attacchi della “Resistenza”. Queste problematiche sono state sollevate anche dal governo americano che, a livello pubblico ma anche in privato, sembra avere espresso tutte le proprie perplessità a Netanyahu circa l’impreparazione delle forze israeliane per un’operazione di terra. La motivazione ufficiale dell’atteggiamento di prudenza consigliato dall’amministrazione Biden ha a che fare più che altro con la necessità di assicurare la liberazione dei prigionieri di nazionalità americana nelle mani di Hamas, ma il fattore principale è la trappola in cui Israele potrebbe cadere a Gaza.

La cautela è dovuta in secondo luogo all’apertura di altri fronti che seguirebbe all’invasione della striscia. Al di là delle minacce, Israele teme fortemente l’esplosione di un conflitto in piena regola con Hezbollah, sia per le potenzialità del partito-milizia sciita libanese sia per le risorse che il “fronte settentrionale” sottrarrebbe alla guerra contro Hamas. Secondo alcuni, USA e Israele starebbero cercando di rafforzare la propria posizione nei confronti di Hezbollah, ad esempio attraverso la recente mobilitazione delle due portaerei americane, in modo da convincere i suoi leader ad astenersi dall’intervenire a sostegno dei palestinesi. Del successo di questa strategia non ci sono però indicazioni per il momento. Anzi, Hezbollah continua a prendere di mira postazioni israeliane oltre il confine libanese e insiste nell’avvertire che l’escalation militare su questo fronte proseguirà in parallelo agli sviluppi nella striscia di Gaza.

Il già citato articolo di The Cradle ricorda anche i rischi a cui verrebbero esposte le basi e le altre installazioni militari americane in Medio Oriente in caso di aggravamento del conflitto. Le milizie sciite in Iraq proprio in questi giorni stanno bombardando le basi illegali degli USA in Siria, mentre dallo Yemen nei giorni scorsi sono già partiti in direzione di Israele droni e missili, anche se per il momento abbattuti dai sistemi difensivi. La situazione resta molto calda anche in Giordania, il cui regime è un alleato di ferro degli Stati Uniti ed è firmatario di un trattato di pace con Israele. Le manifestazioni a sostegno dei palestinesi nel regno hashemita si stanno moltiplicando e solo il rigido controllo delle frontiere ha impedito finora la mobilitazione di migliaia di volontari che vorrebbero unirsi alle forze della “Resistenza”.

L’operazione di Hamas e Jihad Islamica ha in definitiva messo in crisi il regime di Netanyahu e dei suoi alleati ultra-radicali. Da un lato, Tel Aviv non ha alternative al confronto sul terreno a Gaza con i combattenti palestinesi, anche perché lo stesso primo ministro è sotto pressione per non avere sventato un’offensiva senza precedenti che, secondo le stime ufficiali, ha causato finora la morte di 1.400 israeliani. L’umiliazione subita deve quindi essere riscattata dalla distruzione totale di Hamas, impossibile da ottenere con la sola campagna aerea. Allo stesso tempo, però, il lanciarsi in un’operazione di terra che comporta i rischi descritti in precedenza minaccia di gettare lo stato ebraico in una crisi ancora più profonda.

Sotto il fuoco “amico”

Con il procedere del tentativo di genocidio palestinese, si stanno delineando contorni più chiari degli eventi che, a partire dal 7 ottobre, sarebbero alla base dei bombardamenti indiscriminati a Gaza. Il regime sionista e i suoi sostenitori in Occidente ripetono in continuazione che le atrocità commesse ha Hamas sui civili israeliani sono degne dello Stato Islamico (ISIS), se non dei nazisti, e giustificano perciò di fatto qualsiasi mostruosità commessa contro i civili palestinesi nella striscia.

Quanto accaduto dopo l’ingresso dei combattenti di Hamas negli insediamenti israeliani non è però del tutto chiaro e alcune testimonianze e indagini degli ultimi giorni stanno mettendo in dubbio la versione ufficiale. La grandissima maggioranza degli israeliani morti nei primissimi giorni dell’operazione della “Resistenza” sarebbero civili innocenti massacrati deliberatamente da Hamas, anche se i suoi leader sostengono di avere preso di mira quasi esclusivamente i militari dello stato ebraico.

Un articolo scritto da un anonimo cittadino israeliano per il sito Mondoweiss ha scatenato un’accesa discussione nella galassia dei media indipendenti. L’autore cita prove e testimonianze per sostenere che almeno una parte delle vittime civili israeliane registrate il 7 ottobre e nei giorni successivi sono state provocate dal fuoco dei militari israeliani. Le testimonianze presentate sono coerenti con la controversa “Direttiva Hannibal” delle forze armate sioniste, che prevede la possibilità di ordinare attacchi contro postazioni nemiche anche se ciò comporta l’uccisione di prigionieri civili o militari israeliani. L’obiettivo è di evitare che vengano fatti ostaggi israeliani, tradizionalmente utilizzati come elemento di pressione o per scambi di detenuti palestinesi, spesso in numero molto maggiore rispetto a quelli israeliani rilasciati.

Mondoweiss fa riferimento tra l’altro a un’intervista pubblicata dal sito Electronic Intifada a una donna israeliana che era stata tenuta ostaggio e poi rilasciata da Hamas durante gli scontri del 7 ottobre scorso nel kibbutz di Be’eri. Secondo le autorità di Israele, in quella circostanza gli uomini di Hamas avevano massacrato 112 civili prima dell’intervento delle forze sioniste. La donna sentita dai reporter di Electronic Intifada racconta invece una realtà differente. A suo dire, i guerriglieri palestinesi avevano trattato lei e gli altri prigionieri con “umanità”, poiché questi ultimi erano di fatto scudi umani che garantivano il ritorno a Gaza senza essere presi di mira dal fuoco israeliano.

Al contrario, quando i militari arrivarono, iniziarono subito a sparare indiscriminatamente, uccidendo senza dubbio anche i civili israeliani tenuti in ostaggio da Hamas. Questa testimonianza si sposa con quelle di alcuni sondati di Israele citate da un articolo del britannico Guardian datato 11 ottobre. In esso vene raccontato di come i carri armati israeliani avessero fatto fuoco senza alcuno scrupolo contro edifici dove i combattenti di Hamas si erano asserragliati con prigionieri israeliani.

Episodi simili sono stati riportati altrove nelle ultime due settimane, tra cui nell’edizione in ebraico del quotidiano israeliano Haaretz. Si tratta quindi di una pratica tutt’altro che casuale e, spiega l’autore dell’articolo di Mondoweiss, necessiterebbe di indagini più approfondite. Infatti, l’uccisione di civili israeliani, la cui responsabilità viene attribuita per intero a Hamas, rappresenta la giustificazione ufficiale delle stragi quotidiane di palestinesi inermi in corso a Gaza con il beneplacito di tutte le “democrazie” occidentali.

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