Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita sembra avere subito una nuova battuta d’arresto con la recente presa di posizione contraria da parte della monarchia del Golfo Persico, comunicata in via ufficiale al governo degli Stati Uniti. La notizia non ha per ora trovato conferme, ma le resistenze manifestate da Riyadh al ristabilimento formale di relazioni diplomatiche con lo stato ebraico, soprattutto dopo la distensione promossa con la Repubblica Islamica, avevano fatto da qualche tempo intravedere un epilogo poco incoraggiante per Washington e Tel Aviv.

Qualche giorno fa, il giornale on-line di proprietà saudita Elaph ha scritto che l’Arabia Saudita “ha informato l’amministrazione Biden [dell’intenzione] di interrompere ogni discussione relativa alla normalizzazione con Israele”. Anche se smentita prevedibilmente dai governi americano e israeliano, la notizia è quanto meno sintomatica dei malumori sauditi. I negoziati tra i due paesi fanno parte del progetto, lanciato inizialmente dall’ex presidente Trump, che, attraverso i cosiddetti Accordi di Abramo, dovrebbe portare all’istituzione di normali rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi arabi.

 

Finora, a sottoscrivere questi accordi sono stati gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco, il Sudan e il Bahrein. La speranza di Israele e Stati Uniti era però di convincere l’Arabia Saudita, ovvero il paese arabo più importante tra quelli che ancora non hanno relazioni formali con lo stato ebraico. I regnanti sauditi hanno tuttavia sempre affrontato con cautela la questione, viste le potenziali conseguenze negative di un nuovo approccio al problema israeliano, in particolare per via dei mancati progressi sulla questione palestinese.

Infatti, la notizia diffusa da Elaph cita proprio l’indisponibilità israeliana a discutere possibili concessioni ai palestinesi come la ragione della riluttanza saudita a sottoscrivere un accordo diplomatico con Tel Avv. La fonte del giornale saudita sarebbe un funzionario dell’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu. La responsabilità delle resistenze del governo di Israele ad adottare provvedimenti a favore dei palestinesi, in cambio della normalizzazione dei rapporti con Riyadh, sarebbe da attribuire in primo luogo ai ministri di estrema destra Bezalel Smotrich (Finanze) e Itamar Ben Gvir (Sicurezza).

Da parte sua, Netanyahu avrebbe mostrato una certa apertura a iniziative di facciata o, ad esempio, per l’ipotesi di rafforzare l’Autorità Palestinese, dal momento che l’ultra-screditato organo di governo della Cisgiordania rappresenta uno strumento utile anche per Israele nella repressione della resistenza palestinese. I partner di governo radicali del Likud – Partito Sionista Religioso e Potere Ebraico – hanno al contrario posizioni più rigide e si oppongono a qualsiasi concessione ai palestinesi. Smotrich e Ben Gvir hanno di fatto potere di veto sulle decisioni del governo e avrebbero bloccato finora qualsiasi iniziativa anche simbolica per favorire il dialogo con Riyadh.

Le giravolte diplomatiche innescate dagli Accordi di Abramo erano sembrate poter raggiungere l’obiettivo di mettere da parte le aspirazioni palestinesi e le pressioni che esse esercitano sui leader arabi, così da aprire la strada, anche e soprattutto grazie alla “mediazione” americana, a intese diplomatiche su base bilaterale con Israele. L’interrogativo più grande riguardava l’Arabia Saudita, cioè se la monarchia wahhabita fosse disposta a rinunciare ai principi della “Iniziativa Araba di Pace” del 2002, che offriva appunto la normalizzazione con lo stato ebraico in cambio della risoluzione della crisi palestinese, inclusa la creazione di uno stato indipendente con capitale Gerusalemme Est.

Negli ultimi anni, i sauditi si sono mossi in varie occasioni per sondare il terreno e verificare quali sarebbero state le reazioni tra le popolazioni arabe all’istituzione di rapporti diplomatici ufficiali con Israele. Solo settimana scorsa era atterrata ad esempio a Riyadh una delegazione israeliana per partecipare a una conferenza dell’UNESCO. Per contro, profonda impressione sull’erede al trono saudita Mohammad bin Salman (MbS) devono avere fatto episodi come quello registrato recentemente in Libia, dove la sola notizia dell’incontro tra il ministro degli Esteri di Tripoli e la sua controparte israeliana a Roma hanno scatenato un’ondata di proteste nel paese nordafricano.

L’articolo di Elaph racconta anche di un Netanyahu “confuso” per la decisione saudita, dal momento che il governo israeliano non si aspettava che Riyadh intendesse collegare la questione palestinese alla normalizzazione dei rapporti bilaterali. È improbabile che Tel Aviv abbia sottovalutato l’importanza della questione per i sauditi, ma è possibile che la sorpresa derivi dal fatto che, per i governi coinvolti, il futuro dei palestinesi è da citare pubblicamente solo per dare l’impressione che esista un reale interesse nella crisi, mentre, come aveva affermato qualche settimana fa in un’intervista lo stesso Netanyahu, a porte chiuse “si parla [della questione palestinese] molto meno di quanto si pensi”.

A livello pratico, le relazioni in vari ambiti tra Israele e alcuni paesi arabi sono state più o meno normalizzate da tempo. Quello che Tel Aviv e Washington desiderano è però la ratifica ufficiale di queste relazioni, così da incassarne i benefici politici e seppellire definitivamente le ambizioni palestinesi. La questione resta molto sensibile per le popolazioni arabe, a grande maggioranza contrarie a qualsiasi apertura allo stato ebraico. Se la notizia riportata da Elaph fosse confermata, ciò testimonierebbe come il futuro palestinese resti un fattore in grado di influenzare le dinamiche strategiche mediorientali, nonostante il sostanziale disinteresse degli stessi leader arabi.

Ci sono in ogni caso altri elementi da considerare in relazione al passo indietro saudita che, di per sé, evidenzia se mai fosse stato necessario il vicolo cieco della radicalizzazione del panorama politico israeliano. Innanzitutto, ci sarebbe da chiedersi quali sarebbero i vantaggi per Riyadh di una normalizzazione diplomatica con Israele. La proposta in tal senso è stata ideata a Washington e punta infatti a soddisfare gli obiettivi strategici americani, oltre che israeliani.

Da parte saudita, l’interesse per l’iniziativa era collegato se mai ad alcune contropartite che sarebbero dovute arrivare dagli Stati Uniti. Come il contributo alla creazione di un programma nucleare civile e il rafforzamento dell’accordo per la sicurezza del regno, da tradurre nella vendita di armi americane d’avanguardia. Queste promesse non si sono mai concretizzate, né sembrano esserci i presupposti perché vengano mantenute nel prossimo futuro, ironicamente soprattutto per l’opposizione di Israele che teme un rimescolamento a proprio sfavore degli equilibri militari regionali.

È anche importante rilevare che la prospettiva della normalizzazione con Israele e del rafforzamento della partnership con gli Stati Uniti ha gradualmente perso la propria attrattiva per l’Arabia Saudita. L’interesse del regno è da qualche tempo orientato verso le nuove dinamiche multipolari, così come, nell’ambito delle politiche petrolifere, alla collaborazione con la Russia nel quadro del cosiddetto “OPEC+”. Com’è noto, infatti, nel corso del vertice dei BRICS di fine agosto in Sudafrica, è stato formalizzato l’imminente ingresso dell’Arabia Saudita, assieme ad altri paesi, nell’organo più rappresentativo del “Sud Globale”.

Il punto di svolta di questo riassetto delle priorità strategiche saudite è stato con ogni probabilità il ristabilimento la scorsa primavera di normali relazioni diplomatiche con l’Iran grazie alla mediazione cinese. La scelta di Riyadh, in definitiva, è sembrata essere quella della stabilità in Medio Oriente, sia pure senza rompere la storica alleanza con gli Stati Uniti. In quest’ottica, la firma di un accordo diplomatico con Israele sotto la supervisione americana non avrebbe portato nessun contributo positivo.

Quasi a sottolineare questa evoluzione della politica estera saudita, la notizia del ritiro dai negoziati con Israele è arrivata in contemporanea a quella del prossimo incontro a Riyadh tra i rappresentanti della monarchia wahhabita e del movimento Ansar Allah (“Houthis”) yemenita, più o meno appoggiato dall’Iran, per cercare una soluzione alla sanguinosa guerra nel paese della penisola arabica.

Dopo una tregua firmata nell’aprile 2022, anche se poi non rinnovata, il conflitto in Yemen aveva perso intensità. L’Arabia Saudita era apparsa disponibile a percorrere la strada del negoziato per chiudere una guerra disastrosa anche per i propri interessi, ma, secondo varie rivelazioni, erano stati proprio gli USA a mettere il veto sulla diplomazia. Il fatto che ora Mohammad bin Salman abbia deciso di ricevere gli odiati “Houthis” a Riyadh la dice perciò lunga sulle ambizioni saudite a svincolarsi dall’abbraccio distruttivo di Washington e, quanto meno, a congelare il processo diplomatico con lo stato ebraico.

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