Il golpe militare di qualche giorno fa in Niger ha dato l’impressione a molti osservatori di essere l’ultima tessera del domino a cadere in una regione, come quella del Sahel, flagellata da oltre un decennio di fallimentari politiche “anti-terroristiche” promosse dall’Occidente. Come e ancor più dei vicini Mali e Burkina Faso, il Niger rappresenta un caso interessante per il futuro degli equilibri strategici in Africa e il successo o meno della giunta appena installatasi al potere nella capitale, Niamey, dipenderà in larga misura dalla risposta degli attori internazionali coinvolti, dalla Francia agli Stati Uniti, fino alla Russia.

 

L’importanza del Niger risiede principalmente nelle ben note riserve di uranio che conserva nel sottosuolo e il ruolo che questo bene ricopre nell’alimentare l’industria del nucleare francese. Questo fattore si intreccia con la presenza di contingenti militari di Francia e Stati Uniti nel quadro appunto della lotta al terrorismo di matrice jihadista che infesta la vastissima regione sub-sahariana a partire dal rovesciamento di Gheddafi in Libia nel 2011 in seguito alla finta rivoluzione orchestrata dall’Occidente.

In Niger ci sono circa 1.500 militari francesi, parte dei quali giunti negli ultimi mesi dopo l’espulsione decisa dai nuovi regimi di Mali e Burkina Faso, anch’essi risultato di colpi di stato militari. Nella località settentrionale di Agadez, ovvero nel cuore dell’area dove si concentra l’attività estrattiva nigerina, il governo americano ha costruito invece una gigantesca base militare da dove partono tutte le operazioni di “anti-terrorismo” con veicoli senza pilota (droni) in Africa occidentale. I soldati USA, secondo alcune stime, sarebbero poco più di mille.

Le relazioni con l’Occidente si erano intensificate durante la presidenza prima di Mahamadou Issoufou (2011-2021) e poi del suo successore, Mohamed Bazoum, deposto la scorsa settimana dall’intervento della Guardia Presidenziale nigerina. La sorte e l’eventuale risposta al golpe dei militari francesi e americani non sono ancora chiare, né l’orientamento che la giunta – “Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria” – intenderà tenere nei confronti delle potenze straniere, soprattutto quando le pressioni raggiungeranno livelli non facili da sostenere.

Per il momento, i militari, guidati dal colonnello Abdourahamane Tchiani, hanno messo in guardia da interferenze esterne e, ancora, sull’esempio di Mali e Burkina Faso, potrebbero cavalcare il vasto sentimento anti-occidentale nel paese per consolidare la propria posizione. Dopo una breve protesta a favore del deposto presidente Bazoum, si sono verificate a Niamey altre manifestazioni più numerose contro la Francia, gli Stati Uniti e gli “inviti” dall’estero a ristabilire l’ordine “democratico” nel paese.

Ampiamente diffuse in rete sono state le immagini di molti manifestanti pro-golpe che sventolavano bandiere russe. Il ministero degli Esteri di Mosca ha in realtà anch’esso condannato il colpo di stato, ma gli eventi hanno subito scatenato la propaganda occidentale sul possibile coinvolgimento della Russia. In ogni caso, le rivolte degli ultimi due anni nella regione del Sahel esprimono in un modo o nell’altro l’insofferenza generalizzata per lo sfruttamento occidentale di paesi ricchi di risorse o situati in posizioni strategiche cruciali. Insofferenza che si salda con le più ampie dinamiche geo-politiche innescate dal conflitto in Ucraina, trovando nella Russia un punto di riferimento sempre più importante nella transizione verso un modo multipolare.

Il Niger sembrava comunque rappresentare l’ultimo elemento di stabilità nell’area sub-sahariana per Parigi e Washington. L’esperto di storia africana, Nathaniel Powell, ha spiegato su Twitter (“X”) che “Francia e Stati Uniti stavano esercitando troppe pressioni sul Niger” al fine di consolidare lo status di partner nell’ambito dell’anti-terrorismo. Un atteggiamento, quello americano e francese, secondo Powell “comprensibile” se si considerano sia i problemi interni sia il fatto che il Niger era diventato “l’ultimo anello di una catena già spezzata”. Uno scenario che conferma così nuovamente il fallimento delle politiche di Washington in questa regione dell’Africa, soprattutto se si pensa che uno dei leader golpisti, il generale Moussa Salaou Barmou, era stato addestrato negli USA e, solo un mese fa, aveva incontrato il generale americano Jonathan Braga, comandante delle forze speciali nella base di Agadez.

Ci sono pochi dubbi che l’instabilità alla base di colpi di mano militari come quello del Niger sia da ricondurre alle frustrazioni di popolazioni impoverite e ultra-sfruttate che vedono le risorse spesso ingenti dei loro paesi arricchire le corporation occidentali e, allo stesso modo, assistono al deterioramento della sicurezza interna nonostante la presenza di contingenti militari stranieri. D’altra parte, gli attacchi terroristici in Niger e negli altri paesi vicini sono aumentati vertiginosamente dopo l’arrivo di forze occidentali che, al contrario, il terrorismo avrebbero dovuto combattere.

L’eventuale perdita da parte di USA e Francia anche del Niger rischia così di cancellare, almeno per il breve periodo, la presenza militare occidentale dal Sahel, col rischio oltretutto di favorire la presenza russa, in particolare attraverso la compagnia privata Wagner, di cui si parla con insistenza sia in Mali sia in Burkina Faso. Per i fattori descritti, la sfida attorno al futuro immediato del Niger potrebbe essere accesissima e gli sviluppi delle scorse ore sembrano confermarlo.

Basti pensare alle reazioni del governo francese e delle organizzazioni regionali africane. Macron ha espresso ad esempio una durissima condanna del golpe, per poi aggiungere – significativamente – l’avvertimento che Parigi “non tollererà attacchi contro la Francia e gli interessi francesi”. La nuova giunta avrebbe già annunciato lo stop alle esportazioni di uranio verso la Francia. Parigi riceve circa la metà dell’uranio estratto in Niger, mentre il 24% di quello importato dall’Unione Europea proviene da questo paese.

La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) e l’Unione Africana hanno imposto ultimatum per rimettere Bazoum al suo posto. In caso contrario, verranno valutati seri provvedimenti. L’ECOWAS, in una riunione di emergenza tenuta domenica in Nigeria, ha dato sette giorni di tempo alla giunta militare nigerina per ristabilire l’ordine costituzionale, minacciando non solo sanzioni ma anche un possibile intervento militare. Alcune misure sono già state adottate, come il congelamento dei beni dei militari coinvolti nel golpe e la sospensione delle transazioni finanziarie e degli aiuti internazionali. Secondo il primo ministro del Niger, Ouhoumoudou Mahamadou, queste ultime sanzioni saranno particolarmente pesanti da un punto di vista “sociale ed economico”, poiché il suo paese “dipende in larga misura dai partner internazionali per coprire le proprie necessità di bilancio”.

Come appare evidente, la crisi nel Niger è complicata dal sovrapporsi della competizione per l’Africa tra un Occidente rimasto ancora a logiche neo-coloniali e potenze emergenti come Russia e Cina, non gravate dal passato coloniale e in grado di offrire prospettive concrete di sviluppo senza troppi vincoli o condizioni. A livello simbolico, il colpo di stato del fine settimana in Niger ha trovato inoltre un palcoscenico virtuale formidabile nel secondo summit russo-africano che si stava svolgendo a San Pietroburgo.

L’evento è stato fortemente improntato al tema della liberazione del continente dall’influenza occidentale e i fatti di Niamey hanno dato un’efficace rappresentazione visiva della debolezza crescente delle posizioni delle ex potenze coloniali. Riassumendo lo stato d’animo diffuso in Africa in questa fase storica, il giovanissimo presidente ad interim del Burkina Faso, Ibrahim Traoré, espressione anch’egli di un intervento militare che ha rovesciato un governo filo-occidentale, ha affermato a San Pietroburgo che “uno schiavo che non si ribella non merita compassione”, per poi invitare l’Unione Africana a “smettere di denunciare gli africani che decidono di combattere contro i regimi-fantoccio dell’Occidente”.

Al di là del fatto che la storia dei golpe militari in Africa e altrove molto raramente racconta di progressi sociali, economici e democratici significativi, è del tutto comprensibile che la nuova ondata di colpi di stato, che sta interessando soprattutto la regione del Sahel, sia caratterizzata da un certo livello di consenso tra popolazioni costrette a sopportare povertà, corruzione, sfruttamento che, quasi sempre in maniera legittima, identificano con la collaborazione tra l’Occidente e una classe politica ultra-screditata.

Alla luce di ciò, come ha spiegato in una lunga analisi Brad Pearce nella newsletter The Wayward Rabbler, ospitata dalla piattaforma Substack, “il golpe in Niger è uno degli eventi politici meno sorprendenti che potevano accadere”. Appare al contrario molto più sorprendente che, in questo paese, “i governi civili siano sopravvissuti negli ultimi dodici anni senza un colpo di stato”.

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