di Giovanna Pavani

Chiamarlo “colpo d’ala” è senza dubbio eccessivo. Ma chi credeva che alla caduta del governo sarebbe corrisposta anche la fine della strategia indicata da Padoa Schioppa per raggiungere, nei tempi previsti, la cessione di Alitalia, è rimasto senza dubbio sorpreso. Ma non del tutto sollevato. Proprio nei momenti di maggiore fibrillazione della crisi di governo, sui tavoli delle cinque compagnie aspiranti acquirenti del vettore italiano è piovuto un documento di 22 pagine nelle quali sono elencate le condizioni poste dall’attuale azionista di maggioranza per l’avvio della trattativa. Un punto su tutti sembra essere imprescindibile: Alitalia dovrà restare italiana per almeno altri otto anni. Logo, marchio e sede non si toccano. Nessuna indicazione, invece, sul mantenimento dei livelli occupazionali, fatto che ha già messo in allarme il fronte sindacale. I leader di Cgil, Cisl e Uil, infatti, invece di applaudire alla promessa mantenuta restano in attesa di conoscere il vero piano industriale che dovrà rilanciare la compagnia di bandiera. E’ sensazione diffusa che il governo, con questo documento, abbia voluto lasciare le maglie della trattativa più larghe possibile per non scoraggiare i candidati all’acquisto, ma solo nel momento in cui il piano industriale verrà presentato si conosceranno davvero le reali intenzioni del governo in merito al riassetto della compagnia; a parlare sugli esuberi, a quel punto, resteranno i numeri e ci sarà ben poco da trattare.


Ora, tuttavia, la palla è nel campo delle cinque cordate rimaste in gara dopo la prima fase, che dovranno presentare le proprie offerte preliminari entro il 16 aprile. Nel documento, il governo ha indicato che la quota minima del capitale di Alitalia ceduta dal Tesoro passerà dal 30,1% al 39,1%, riducendo al 10% quella conservata dal ministero per esercitare una funzione di garanzia. L’operazione è stata poi “blindata” per tre anni, entro i quali le azioni acquisite non potranno passare di mano, neanche in parte.
Il piano industriale che gli offerenti dovranno presentare deve coprire un arco di tempo di cinque anni, fino al 2012, ma con la previsione di “un congruo perseguimento degli obiettivi” entro 36 mesi dalla privatizzazione. Tale piano dovrà svilupparsi secondo le direttrici dello sviluppo e del risanamento della compagnia, e dovrà indicare le alleanze oltre agli interventi sul personale, comprese “logiche di gestione”, “eventuali interventi sulla forza lavoro” e sul “costo del lavoro”.

La lettera inviata dal Tesoro parla anche di “impegni relativi alla salvaguardia occupazionale”, con l’impegno, in particolare, a “garantire i livelli occupazionali indicati nel piano industriale definitivo”, ma è un aspetto tutto da valutare in una fase successiva. Infine, viene confermata la possibilità di ingresso di altri soggetti a fianco degli offerenti già in gara, oppure l’aggregazione di concorrenti, operazioni che devono essere formalizzate entro il 2 aprile. Dopo la nomina del nuovo presidente Berardino Libonati, il prossimo importante appuntamento sul destino di Alitalia è previsto per il 29 marzo, quando saranno resi noti i dati definitivi del bilancio 2006. I nuovi termini temporali indicati da Padoa Schioppa obbligheranno tutti i candidati ad uscire allo scoperto, ma ci sono ancora una serie di incognite che pesano comunque sul futuro della compagnia.

Il primo è rappresentato dal reale stato di salute del gruppo. E a parte il pre-consuntivo del 2006 che il cda dovrà varare nelle prossime settimane, le stime parlano di un regime di perdite che si aggirerebbero intorno ai 380 milioni di euro. E sono conti che potrebbero peggiorare se il presidente decidesse, nell’ambito di una revisione del bilancio, di svalutare la flotta per 400 milioni di euro. C’è poi l’aspetto legato alla politica e alla crisi di governo. E malgrado la situazione stia diventando meno grave, la possibilità che tutto vada a monte resta ancora concreta. In quel caso, per Alitalia sarebbe la fine. Senza privatizzazione e riassetto, la società vola perdendo un milione di euro al giorno. Uno stop dell’asta provocherebbe una situazione di stallo e il fallimento inevitabile della compagnia. Giovanni Sabatini, ex presidente pro tempore dell’assemblea dell’Alitalia, non ha voluto fornire cifre reali sulle perdite nel 2006: saranno rese note quando scatterà l’obbligo di informativa al mercato per l’approvazione del bilancio.

Sulle perdite ha indubbiamente pesato la gestione di Giancarlo Cimoli, entrato in carica in Altalia il 6 maggio del 2004 ed uscito l’altro giorno in punta di piedi. Cimoli non e’ stato capace di completare il risanamento entro il 2006 con un bilancio attivo come aveva promesso nel piano industriale e nei mesi scorsi e’ stato al centro di una vera e propria bufera quando i giornali hanno riportato che nel 2005 ha ricevuto uno stipendio per 2,786 milioni lordi, emolumento ritenuto il più alto nel settore del trasporto aereo europeo e nella storia dell’Alitalia. Il nuovo consiglio di amministrazione, che resterà in carica tre anni (e non un anno come si riteneva in un primo momento) dovrà necessariamente essere più parsimonioso. L’assemblea dei soci, su proposta del Ministero dell’Economia, ha deciso che il compenso annuale complessivo sarà di 132 mila euro l’anno, in pratica 26.400 euro lordi a testa, una cifra veramente modesta se non sarà gonfiata con gratifiche ed emolumenti aggiuntivi. Di certo, nessuno potrà più farsi ricco sulle spalle dei lavoratori come è riuscito a fare Cimoli, che dopo le Ferrovie ha devastato anche il principale vettore italiano. La sua carriera di manager pubblico, a questo punto, può dirsi definitivamente conclusa, alle spalle delle tasche dei contribuenti.



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