Lo scorso 27 agosto si è verificato un fatto destinato a entrare nei libri di storia dell’economia. Riguarda gli Stati Uniti, ma è significativo anche per noi europei (italiani in particolare), visto che in futuro potrebbe danneggiarci. Il fatto è questo: dal simposio di Jackson Hole, nel Wyoming, il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha fatto sapere che la Banca centrale americana cambierà l’impostazione di fondo della sua politica monetaria. Per importanza, l’annuncio è paragonabile al “Whatever it takes” di draghiana memoria.

 

Dalla fine degli Anni 70 - seguendo il vangelo monetarista di Milton Friedman - la Fed ha sempre combattuto l’inflazione con una strategia preventiva, ossia alzando i tassi d’interesse non quando l’aumento dei prezzi toccava effettivamente il 2%, ma prima, appena si scorgeva il pericolo all’orizzonte.  

Da oggi, questa impostazione cambia: la prossima stretta monetaria arriverà quando l’aumento dell’inflazione sarà reale e non solo una previsione degli economisti. Inoltre, nei prossimi anni la Federal Reserve potrebbe addirittura spingere temporaneamente la crescita dei prezzi oltre la soglia del 2% per compensare i periodi di bassa inflazione. Una pratica impensabile fino a pochi giorni fa.

Tutto ciò significa che la politica monetaria della Fed resterà ultra-espansiva per molto tempo, con i tassi d’interesse inchiodati al minimo storico. I mercati, quindi, possono stare tranquilli: l’oceano di liquidità in dollari continuerà ad allagare il sistema finanziario ancora a lungo (con il rischio collaterale di produrre nuove bolle speculative, oggetto come sempre di rimozione freudiana). La notizia, naturalmente, è positiva anche per gli americani indebitati, che sono tanti e potranno ripagare prestiti e mutui a costi bassi.

Gli obiettivi primari della Fed, comunque, sono altri: innescare la ripresa, alimentare la crescita e creare “un mercato del lavoro più robusto possibile a beneficio di tutti gli americani”, ha spiegato Powell. Da statuto, infatti, la Banca centrale americana deve puntare come primo traguardo il massimo impiego e solo come secondo la stabilità dei prezzi (che invece è lo scopo numero uno della Bce).

Ma combattere l’inflazione non ha senso in un momento di crisi come questo: nel secondo trimestre del 2020, il Pil degli Stati Uniti ha fatto segnare un crollo del 31,7%, il peggiore dal 1947, ossia da quando esiste questo tipo di statistica.

Ora, il punto è che nel medio periodo - dopo la svolta annunciata da Powell - le politiche monetarie di Fed e Bce potrebbero tornare a divergere dopo diversi anni di allineamento, e per di più nel modo fino a ieri considerato più improbabile. In altri termini, i tassi d’interesse rischiano di ricominciare a salire prima in Europa che negli Stati Uniti. Se ciò accadesse, l’euro si rafforzerebbe molto sul dollaro, infliggendo un duro colpo alle esportazioni dell’Eurozona (se vendi con una moneta forte, le tue merci costano di più e sono quindi meno competitive sul mercato).

Tra i Paesi più colpiti ci sarebbe ovviamente l’Italia, visto che l’importanza dell’export nella nostra economia non fa che crescere: secondo l’Istituto per il commercio estero (Ice), nel 2019 le esportazioni italiane hanno raggiunto i 585 miliardi di euro, un valore pari al 31,7% del Pil, contro il 24,9% del 2010.

Dopo di che, quando la Bce deciderà di alzare i tassi, la disgrazia per il nostro Paese sarà soprattutto sul fronte del debito pubblico, ormai proiettato oltre il 160% del Pil. Non accadrà presto, ma prima o poi accadrà. E se non potremo contare nemmeno sulla locomotiva dell’export, saranno dolori.

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