Le banche italiane (e non solo) incassano un brutto colpo dalla Bce. O meglio, dalla Vigilanza della Bce, centro di potere dove a comandare non è Mario Draghi, ma l’asse franco-tedesco. E si vede. Mercoledì scorso Francoforte ha pubblicato le linee guida sulla gestione delle sofferenze. Lo ha fatto tramite un documento di consultazione: da qui a dicembre saranno raccolti diversi pareri e poi le nuove regole, con eventuali modifiche, diventeranno operative a partire da gennaio 2018.



In sostanza, la Bce chiede alle banche di aumentare le riserve a fronte dei crediti deteriorati (Npl, non performing loans) fino al 100% in 2 anni se l’insolvenza è su esposizioni non garantite e in 7 anni se invece ci sono beni mobili o immobili a garanzia. Queste linee guida si applicheranno solo ai nuovi Npl e non anche allo stock preesistente.

Tuttavia, secondo Equita, la stretta potrebbe costare alle banche italiane fino a 1,3 miliardi di euro l'anno, ovvero circa 9 miliardi di nuovi accantonamenti nei prossimi sette anni. Soldi che, chiaramente, saranno sottratti al credito.

La notizia ha fatto saltare sulla sedia il mondo bancario italiano, che vede proprio negli Npl il suo problema numero uno. Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, ha prospettato “forti effetti negativi” soprattutto nei confronti delle Pmi. Gli ha fatto eco Confindustria, parlando del “rischio di un’ingiustificata stretta sul credito”.

I punti di vista da cui analizzare la questione sono due. Il primo è quello della Vigilanza Bce, che si conferma severa sul problema dei crediti deteriorati – tipico dell’Europeriferia – e assai più indulgente sui rischi connessi all’oceano di derivati ancora in pancia alle banche del nord Europa. Puntare il dito sempre e solo contro gli Npl permette di rinviare la discussione sugli oltre 540 miliardi di titoli tossici presenti nel portafoglio di alcuni grandi istituti europei, in primo luogo francesi e tedeschi. È un gioco che va avanti ormai da anni.

L’altro punto di vista è quello italiano. Solo quest’anno gli istituti del nostro Paese si sono liberati di 104 miliardi di esposizioni critiche, ma ancora a giugno il 12% dei crediti era in mora, contro una media Ue del 4,5% secondo le stime dell’Eba, l’Autorità bancaria europea.

Proprio gli Npl sono stati la miccia che ha fatto esplodere i bilanci delle varie banche italiane finite in crisi negli ultimi anni. Nella maggior parte dei casi, a provocare i danni maggiori sono stati pochi grandi debitori insolventi. Non le Pmi, ma gli amici e gli amici-degli-amici a cui i banchieri avevano prestato soldi per ragioni slegate dalla loro affidabilità creditizia. Disastri a cui quasi sempre si è posto rimedio con i soldi dei contribuenti.

A questo punto sarebbe logico aspettarsi che il sistema bancario italiano, invece di lamentarsi delle nuove linee guida, proponga a Francoforte delle soluzioni alternative. Non tanto per ridurre le sofferenze attualmente in bilancio – un processo già in corso – ma per evitare che in futuro il problema si riproponga tale e quale. Invece niente.

Per affrontare la questione alla radice bisognerebbe rivedere i criteri di erogazione del credito, ma al momento le preoccupazioni delle banche si indirizzano altrove. Secondo Intermonte, è probabile che assisteremo a “più alti accantonamenti nel quarto trimestre del 2017”. Il motivo? Per evitare di gestire con le nuove linee guida una massa di crediti che oggi sono dubbi ma tra qualche mese potrebbero trasformarsi in Npl, molte banche sceglieranno di iscriverne una parte a bilancio come sofferenze prima del 2018.

Tutto questo lascia aperti i soliti interrogativi: al di là di quelle che abbiamo smaltito, a quanto ammontano le sofferenze in arrivo? E cosa possiamo fare per evitare che in futuro tornino a crescere, oltre a pregare che la ripresa risollevi i bilanci dei debitori? Se nessuno risponde a queste domande, la colpa non è della Bce.

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