di Giovanna Pavani

E’ questa la settimana decisiva per Alitalia. Il calendario è serrato: faccia a faccia Prodi-Cimoli, poi il cda della compagnia. Quindi la presentazione del piano del governo che si muoverà su tre punti: ingresso dei privati con capitali freschi, nuovo management in grado di gestire il piano industriale e strette alleanze internazionali, soprattutto puntate verso il mercato dell’Est; soci che hanno rotte, soldi, ma non scali e che si trovano nel Golfo Persico, India, Cina, Thailandia. Il governo, dunque, guarda ad est e alle ricche compagnie saudite o nei Paesi del Sol Levante: offre scali in cambio di quella liquidità necessaria ad ostracizzare per sempre lo slogan che ha contrassegnato le settimane più critiche della storia del vettore nazionale: “Più si vola, più si perde”. Con il titolo Mib che ha scandito, inesorabile, il conto alla rovescia verso il baratro. Giovedì è stato il giorno più nero, con il titolo che ha chiuso a Piazza Affari con un secco -9%. Non era mai successo. Il fallimento, dunque, è davvero dietro l’angolo. Nell’ultimo trimestre, l’ex compagnia di bandiera italiana ha guadagnato l’1,8% in più di passeggeri, ha la minore incidenza nazionale sulla perdita dei bagagli (circa il 12,9% contro il 16,9% della British e il 16,8 di Lufthansa) e assicura la puntualità degli arrivi e delle partenze nell’80% dei casi. Eppure le perdite della trimestrale mostrano una voragine di -221 milioni di euro: è l’unica in Europa. Con dati peggiori sul fronte dell’aumento della clientela e dei disagi, Air France ha portato al tavolo del cda una trimestrale con un segno positivo di 224 milioni di euro. Stesso discorso per Klm, con un + 240 milioni di euro nei primi tre mesi del 2006.

Alitalia è dunque come una condotta dell’acqua bucata; il flusso entra, ma si disperde in troppi rivoli prima di poter pesare in modo significativo sul conto economico. Anzi, alla fine non arriva nulla. Ecco perché, per non arrivare all’estrema ratio del fallimento, come vorrebbe Maroni, il piano industriale che sta scrivendo il governo dovrebbe tenere conto dei numerosi errori del passato, con una nuova filosofia, allergica a quella logica disfattista del “più si vola, più si perde” enunciata da Cimoli a chiusura del suo fallimento gestionale e della sua imminente uscita di scena. Forse già domani mattina, quando ci sarà il primo (unico e forse definitivo) faccia a faccia tra il manager e il premier, l’attuale presidente e amministratore delegato di Alitalia potrebbe uscire con in mano il foglio di via. Non è detto, però, anche se se lo augurano in parecchi, da una parte sostanziale della maggioranza di governo ai sindacati. E' più probabile, tuttavia, che Prodi decida di lasciarlo in sella almeno per altre tre settimane, il tempo per presentare il piano alle parti sociali e ottenere dagli alleati la fiducia sulla scelta strategica delle alleanze internazionali. Il progetto di rilancio del governo prevede anche, in prospettiva, una graduale uscita dello Stato dall’azionariato e dunque dal core business dell’azienda, per lasciar spazio ai privati, ma con una logica diversa - almeno a quanto ha svelato il vicepremier Rutelli - “ rispetto a quella cui abbiamo assistito nella privatizzazione di Telecom". I possibili alleati di Alitalia saranno dunque cercati nel Golfo Persico, in Asia, in India, in Cina, in Thailandia. Gli altri, i francesi o i tedeschi, potrebbero essere meno generosi. Escluso, quindi, un possibile ritorno all’Iri e alla gestione squisitamente pubblica della riconversione industriale. Prodi, in un incontro con il ministro dei Trasporti Bianchi sarebbe stato netto: non si commettono gli errori del passato, la strategia del rilancio pubblico, in queste condizioni, non avrebbe alcun senso.

Settimana delicata, si diceva. Dove il governo metterà anche in gioco il proprio valore sul fronte del salvataggio di un’azienda un tempo fiore all’occhiello dell’economia nazionale: altri momenti, altra storia. Ma come sempre accade in Italia quando le situazioni imporrebbero coesione tra le forze politiche per la salvaguardia di un bene economico comune, ecco che una piccola polemica di campanile ha preso momentaneamente il sopravvento sulla questione di fondo. Non appena infatti il governo ha fatto trapelare qualche indiscrezione sui propri intenti, l’opposizione ha alzato gli scudi parlando di “piano clientelare” e finalizzato “a questioni elettorali territoriali”. A scatenare la polemica, una frase di Rutelli sul possibile ridimensionamento del ruolo chiave svolto, negli ultimi anni, dallo scalo di Malpensa. L 'hub milanese (hub significa “mozzo della ruota”, in questo caso va letto come centro di snodo economico di un’azienda, ndr), a parere del vicepremier della Margherita, si è rivelato un fallimento. I dati parlano infatti di un incremento del traffico, negli ultimi due anni, dei clienti asiatici verso l’Italia, pari ad un milione e seicentomila persone. Solo che atterrano a Parigi e Francoforte anziché a Milano per raggiungere poi Roma. Malpensa, dunque, non è affatto il “mozzo della ruota”, tutt’altro: “Considerando i primi 15 aeroporti italiani - sono parole di Rutelli - l'unico aeroporto che nel periodo 2000-2005 registra un decremento del 5% pari a 1,1 milioni di passeggeri in meno, è Milano Malpensa. Tutti gli altri crescono. Roma Fiumicino incrementa del 9% arrivando a quota 28,7 milioni.

Alla luce di questi dati, per il governo risulta evidente come la polemica Fiumicino-Malpensa non abbia motivo di esistere”. L’opposizione, stavolta capitanata dal leader in pectore della Cdl, Roberto Formigoni, ha reagito come se, ancora una volta dopo il ddl Gentiloni, qualcuno stesse attentando ai gioielli di famiglia. Ma, forse, è davvero così. A parere del governatore della Lombardia, il governo starebbe per puntare sul rilancio di Fiumicino “non per una logica di mercato e di politica generale del Paese, ma in base al clientelismo territoriale”. La risposta è arrivata dal governatore del Lazio, Piero Marrazzo. Che, nella replica, ha svelato un altro tassello del piano del governo: non ci sarà alcuna contrapposizione tra Malpensa e Fiumicino, ma una diversificazione di compiti. D’altra parte, il primo scalo milanese accoglie le grandi rotte del traffico business per il cosiddetto “far Est” e il Nord America passando dalla Siberia e dal Nord Atlantico. Il discorso legato alla diversificazione dei due principali scali italiani troverebbe il pieno placet dei sindacati, convinti ,al pari del governo, che solo attraverso pater asiatici si possano far entrare i soldi sufficienti al rilancio della compagnia senza ulteriori strappi. A un patto, però: che Cimoli lasci al più presto la sua poltrona.

E qui la partita si fa più complicata del previsto. Come si diceva, ci sarebbe una ferma intenzione del governo di allontanare il presidente per far posto ad un nuovo management che condivida le linee guida del nuovo piano di rilancio. Ma Cimoli non ha intenzione di cedere le armi così facilmente. E, infatti, starebbe lavorando ad un proprio piano di rilancio che, in alcuni punti, potrebbe collimare con quello previsto dal governo. In caso di condivisione di intenti e di strategie, per Prodi diventerebbe difficile licenziare Cimoli seduta stante, fatto che avrebbe messo i sindacati in allerta. Nel documento dell’amministratore delegato, infatti, si supererebbe in modo addirittura più incisivo l'eterna dicotomia aeroportuale italiana. Malpensa verrebbe addirittura abbandonata rispetto all'opzione Fiumicino che apparirebbe più funzionale, soprattutto nell'ottica dell'auspicata alleanza con un partner asiatico. Il mercato del trasporto aereo del nord-Europa - hanno infatti fatto notare i tecnici del ministro Bianchi, che Cimoli porterebbe a suffragio delle proprie- ha già un fulcro decisivo nell'hub di Francoforte, rispetto al quale Malpensa avrebbe comunque un ruolo gregario. Piu' strategicamente produttiva, quindi, l'idea di sviluppare lo scalo capitolino, baricentrico rispetto ad un' area mediterranea più vasta.

Solo su un fronte Cimoli non avrebbe carte da presentare, quello delle alleanze strategiche. Su questo Prodi è stato chiaro: ci pensa il governo. Che sarebbe anche disposto a spendere garanzie per una partnership che non sia solo industriale, ma che goda di forte spessore politico e industriale. La Cina, secondo qualcuno, potrebbe essere ancora più vicina.




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