di Mario Braconi

Se la Grecia è arrivata al punto di dover sopravvivere grazie all'elemosina dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non lo deve solamente agli speculatori internazionali. La diagnosi stilata da alcuni giornalisti americani sullo stato dell'arte del paese mediterraneo è certamente corretta: livelli di burocrazia "kafkiani", corruzione e nepotismo onnipresenti (si pensi ad esempio ai dati contabili fasulli sul deficit mandati a Bruxelles dal governo ellenico), mercato dominato da aziende statali e comunque da aziende greche, competitività inesistente, alto livello di litigiosità giudiziaria e tribunali inefficienti.

Interessa, in questo caso, non tanto dolersi del fatto che nessun competitor estero (magari americano, come comprensibilmente vorrebbe il Wall Street Journal) riesca a penetrare la cortina protettiva della chiusa economia greca; quanto piuttosto sottolineare come il contesto descritto dipinga una situazione di stabile compressione dei diritti sociali degli strati meno fortunati della popolazione, anche prima del deflagrare della crisi finanziaria.

A titolo di esempio, basti ricordare che, come ricorda la giornalista conservatrice Anne Applebaum, su Slate, la Grecia è l'unico paese europeo (assieme all'Albania) a non essersi dotato di un catasto informatizzato, cosa che consente a molti agricoltori disinvolti di appropriarsi di terreno pubblico, coltivandoci sopra e arrivando perfino a chiedere sussidi allo stesso stato che stanno derubando: inutile aggiungere che la richiesta di automatizzare i registri è fieramente osteggiata dalla lobby degli agricoltori disonesti.

Ma è davvero così devastante il default della Grecia? Senza voler minimizzare le responsabilità di chi ha scandalosamente approfittato dei tassi bassi per abbandonarsi ad eccessi di ogni tipo, sono utili un paio di precisazioni: se è vero che la Grecia presenta un rapporto deficit/PIL del 13,6%, questo stesso indicatore è pari ad 11,4% in Gran Bretagna (2009) e 10,64% negli Stati Uniti (stima 2010); il debito greco è pari al 115,1% del prodotto interno lordo - lo stesso rapporto fatto registrare dall'Italia.

E' tuttavia interessante notare come la situazione della finanza pubblica greca trovi un inaspettato pendant in quella degli Stati Uniti. Anne Vorce, del think tank New America Foundation, spiega perché su un suo pezzo per la CNN. Certo - sostiene - i due Paesi sono diversissimi: a differenza della Grecia, gli USA impiegano una divisa riserva che può anche essere svalutata in caso al bisogno, hanno un importante mercato domestico, e dispongono di un mercato finanziario ampio e liquido. Ma anche gli Stati Uniti hanno un problema di debito pubblico esplosivo: si stima che, a fine 2010, il debito del Governo americano in forma di titoli negoziabili raggiungerà il 67% del prodotto interno lordo.

Poiché negli ultimi 40 anni questa misura si è mantenuta attorno al 40%, e poiché solo due anni prima era ancora a quel livello, se ne deduce che in un biennio il debito è cresciuto del 50%, grazie soprattutto all'intervento pubblico con cui il Governo è riuscito ad arginare il disastro provocato dai giochini irresponsabili di banche d'affari ed intermediari finanziari. La situazione, già critica, è destinata a peggiorare in futuro, al punto che, secondo la Vorce, il rapporto debito/PIL potrebbe toccare il 150% nel giro di una decade e raggiungere il 300% nel 2050; livelli cui è impossibile giungere senza che si verifichi una crisi devastante.

Ma è poi vero che la società americana è tanto diversa da quella ellenica? Il giudizio di Anne Applebaum è severo: negli Stati Uniti "non si riesce a controllare l'influenza dei lobbisti. Il capacità dei gruppi di potere di influenzare il processo legislativo non può essere messa sotto controllo. Forse da noi non vi saranno persone che occupano abusivamente la terra dello Stato, ma di sicuro abbiamo contadini che dipendono da generosi sussidi agricoli che distruggono il mercato", soprattutto a danno dei Paesi poveri. Anche negli USA, dunque, conservazione dello status quo, iniquità e uso privato della cosa pubblica, sono meno sconosciuti di quanto si voglia ricordare.

Anne Vorce ritiene che sia necessario per gli Stati Uniti affrontare sin da oggi la questione del debito pubblico, al fine di mantenerlo intorno al livello massimo consentito (un buon compromesso potrebbe essere il 60% del PIL). Il controllo dei conti pubblici, continua l'esperta, non dovrebbe andare a discapito dell'equità: "Un semplice taglio della spesa pubblica finirebbe per impedire al governo di fare tutte le cose su cui contiamo per rendere migliori le nostre vite. Un semplice aumento delle tasse finirebbe per drenare denaro dai ceti medi e bassi e sottrarrebbe al paese gli incentivi agli investimenti necessari a sostenere la crescita. Pertanto, occorre assicurarsi che qualsiasi intervento sul budget promuova e tuteli i nostri valori e bisogni essenziali: protezione dei più deboli, incremento dei livelli di qualità della vita attraverso lo sviluppo del capitale umano, l'innovazione e le infrastrutture di base".

Non pare ad ogni modo che i temi sollevati dalla Vorce vengano molto dibattuti al di là dell’Oceano. Con notevole ipocrisia, però, sembra inevitabile che la Grecia vada punita severamente per i suoi eccessi, mentre, ad esempio Gran Bretagna e Stati Uniti possano continuare sulla strada del debito pubblico incontrollato. Frau Merkel, preoccupata dell'esposizione delle banche tedesche verso la Grecia, ha imboccato la strada del rigore inflessibile; cosicché, il martoriato Paese mediterraneo, in cambio del soccorso europeo e del FMI, dovrà affrontara una dieta ferrea a base di rialzi delle tasse, tagli su salari, pensioni (effettivamente generose fino all’insostenibilità) e servizi pubblici, che dovrebbero ipoteticamente riportare in equilibrio il deficit entro il 2013. Una serie di misure che finiranno per colpire soprattutto le fasce delle popolazione già duramente provate dalla grave sperecuazione preesistente.

Non c'è quindi da stupirsi se i cittadini si riversano nelle strade per esprimere (spesso in modi civili e democratici, di rado offrendo un involontario pretesto ai soliti criminali) la propria rabbia nei confronti di un sistema che da decenni continua a favorire sempre le stesse persone. Tanto pesanti e gravati da recessione e disoccupazione si presentano i prossimi anni in Grecia che c'è chi ha provocatoriamente (ma non troppo) proposto una soluzione alternativa: perché la Grecia non abbandona l'Euro?

Lo sostiene Mark Weisbrot, co-director del Centre of Economic  and Politicy Research di Washington in un fulminante articolo comparso sul Guardian lo scorso 18 maggio. Secondo Weisbrot, il governo greco avrebbe dovuto pensarci bene prima di imbarcarsi sul mantenimento dell'Euro e sul processo di aggiustamento di prezzi e salari, secondo lo studioso un vero e proprio "salto nel buio". Basti raffrontare due casi di Paesi in default, la Lituania e l'Argentina: la prima, che persiste sulla strada "lacrime e sangue", ha visto il suo PIL contrarsi del 25% in due anni (un record) e potrebbe impiegare più di un decennio per ritornare ai livelli pre-crisi. La seconda, invece, dopo essere andata in default nel dicembre del 2001, ha abbandonato la parità con il dollaro e, dopo un ulteriore trimestre pesantemente negativo, ha ricominciato a correre, fino a crescere del 63% in termini reali in sei anni. Ma questa, purtroppo è utopia: sembra invece che i Greci dovranno tenersi l'Euro, le lacrime e il sangue.

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