Il concetto di confine come fil rouge della mostra Confine 3/ September11 tra realtà e astrazione, in programma dall’11 al 14 settembre nella Galleria Forzani di Terni. L’ensemble Confine di Fabrizio Borelli, regista, format designer, direttore della fotografia e fine art photographer, racconta territori ai loro limiti - sia tangibili che virtuali - e pone attenzione sul tema della diversità/identità, punto focale per una lettura il più possibile comprensiva della società contemporanea.

Inaugurato con Confine 1/storia di luci e di ombre, arricchito della serie Confine 2/ Europa, tra memoria e modernità simboli e persone sulle tracce del Muro di Berlino, include gli undici frames di Confine 3/ September 11 tra realtà e astrazione, presentati per la prima volta al pubblico alla Galleria di Massimo Forzani, nella mostra curata da Maria Italia Zacheo.

“L'importanza della memoria, di non dimenticare certi fatti o avvenimenti che entrano inevitabilmente nel patrimonio genetico di un Paese, oltre alla grande empatia che si è venuta a creare con Fabrizio, mi hanno spinto a fare questa prima mostra di fotografia nella galleria che dirigo”, sottolinea Massimo Forzani. “Fabrizio non è, a mio avviso, solo un fotografo, ma è un 'manipolatore' di immagini e, per questo, è molto vicino ad essere anche un pittore. Nelle sue opere c'è una forte vicinanza con la pittura, perché non si limita a riprodurre la realtà, ma la rielabora”.

 

Come e perché nasce la mostra Confine 3?

“Nel mese di ottobre del 2001 – racconta Borelli - ero a New York. Per lavoro. Erano passate poche settimane dall’attacco alle Twin Towers. Il cratere era uno sfacelo. Come dovevano essere state Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki, Phnom Penh, Sabra e Shatila, Guernica, peccati originali dell’umanità, ossessivamente replicati. Avevo di fronte a me una foresta muta di rovine, monconi, brandelli, anime che non riuscivano a liberarsi da quelle macerie. Era proibito scattare o girare qualsiasi immagine senza autorizzazione. Portai a casa il mio programma televisivo e nulla più.

Nel 2008, decisi di tornare a NYC. A Ground Zero nei cantieri ribollivano i lavori, feci qualche scatto: una gru, un cartello, un moncone di grattacelo. Tornai a casa e i negativi rimasero nel cassetto per qualche tempo. Poi la memoria delle immagini televisive dell’attacco, delle foto sui giornali, dei fumi del cratere, riemerse. Elaborare gli scatti dei cantieri, sovrapporre un inferno astratto alle immagini del luogo che, qualche anno prima, ne aveva subito uno vero, questo dovevo/volevo fare.

Confine 3 è una sequenza visionaria, la re-immaginazione di una tragedia, la trasfigurazione necessaria del reale non vissuto. Giacomo Leopardi nello Zibaldone scrive: 'L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario'”.

 

In un momento storico come quello attuale, dove l'idea di confine si fa sempre più stringente e forte, qual è il suo punto di vista sul concetto stesso di confine?

“Tracciamo confini per dare un senso alle cose, per definire l’identità personale, culturale, statuale. Il confine è la linea invisibile che separa, ad esempio, una nazione da un’altra - è il corso di un fiume, una catena montuosa o una riga dritta tracciata dopo un trattato di pace indigesto; confine è il filo spinato, il muro che divide una proprietà da un’altra. È il perimetro che diamo ai nostri pensieri, è il punto dove qualcosa finisce. Ma è anche il tratto dove una cosa re-inizia, al di là del confine stesso. Divide e unisce allo stesso tempo, separazione e contatto allo stesso tempo.

Aver adottato 'confine' come parola chiave per alcuni dei miei cicli mi ha permesso di stare sul crinale e riuscire a guardare da una parte e dall’altra, o almeno tentare”.

 

Attraverso il tema della diversità/identità, come si legge la società contemporanea?

“Domanda impegnativa e difficile, cerco di raccapezzarmi. L’identità è il modo in cui un individuo percepisce sé stesso e si definisce come membro di una comunità, famiglia, nazione, religione, etnia. Noi ci identifichiamo facilmente con persone che percepiamo come simili - e qui nasce il senso di appartenenza - e allo stesso tempo individuiamo ciò che ci distingue, che ci rende diversi da altri individui. La diversità è vista perlopiù come minaccia alla propria identità e alle nostre comunità e per questo genera paura e sospetto. La domanda è: come diventiamo ciò che veramente siamo? Attraverso il rapporto con l’altro, con il diverso. È essenziale, insostituibile. È ingannevole pensare di edificare barriere che ci mettano al riparo dalla contaminazione. Difendere la propria identità dai cambiamenti, il rifiuto, la rimozione, per alcuni sembra l’unica strada per proteggere la propria identità.

La società contemporanea è fortemente stratificata, poliforme, sconnessa, polverizzata, non serve chiudere gli occhi per 'salvarsi'. Vorrei aggiungere che le diversità non sono solo date dalla provenienza geografica, ci sono diversità sociali sempre più forti e pervasive, di appartenenza, di reddito, di ceto, di opportunità concesse o negate, diversità che non sono rifiutate e avversate con altrettanta convinzione come con i fenomeni migratori che certo costituiscono una questione da affrontare e risolvere, su entrambi i fronti però, quello di chi viene e quello di chi accoglie. La non accettazione del diverso non è una soluzione, da qualunque parte tu la guardi.

Sono moderatamente ottimista, voglio seguire il suggerimento dell’oroscopo di Rob Brezsny e trovare in me «…l’audacia di mantenere una vivacità intelligente e una positività giudiziosa».

 

La mostra si inaugura l'11 settembre. Una data che ha un significato particolare per la storia contemporanea. Per lei cosa significa?

“L’11 settembre 2001 due aerei di linea si conficcarono nelle Twin Towers, collassarono dopo un paio d’ore. Il terzo aereo, si schiantò sul Pentagono e il quarto aereo precipitò in Pennsylvania. Morirono 2.977 persone innocenti e 19 dirottatori. I feriti furono più di 6.000. Molte furono le persone che si ammalarono e in seguito morirono per la dispersione di sostanze tossiche.

Fu un atto di guerra. E le ragioni di quella guerra appartengono alla complessità del mondo contemporaneo. Basti solo pensare alla genesi di Al-Qāida, che fu protagonista dell’attacco con i suoi uomini.

Afghanistan 1979, invasione sovietica, i mujaheddin si oppongono all’oppressore e combattono sostenuti dal Pakistan, l'Iran, la Cina, l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Si scambiano soldi, informazioni, armi. Il caos afghano, seguito alla ritirata dell’Unione Sovietica - 1989 - generò il movimento dei Talebani e poi di Al- Qāida, acerrimo nemico degli Usa che però, solo dieci anni prima, avevano sostenuto proprio i mujaheddin.

Tutto questo per grandi linee e forse qualche imprecisione. Non mi azzardo ad andare oltre. Non conosco a sufficienza la storia. Non sembra un altro mondo? E invece non c’è soluzione di continuità. Del resto, la guerra è feroce sempre, è inutile fare qui l’elenco secolare degli orrori. L’attacco alle Torri Gemelle fu una sorta di perdita della verginità. E io amavo e amo New York.

Lo stupore, il dolore, la commiserazione delle vittime, di quelli che preferirono lanciarsi nel vuoto pur di non morire asfissiati e bruciati, di coloro che non ebbero e non hanno il bene di pregare sui resti dei propri cari, di coloro che hanno solo una voce registrata nella segreteria del telefono come memoria di un padre, un figlio, una fidanzata. Tutto questo dolore ce l’ho ancora dentro. Così come per le vittime nominate nella penombra dello Yad Vashem - 6.000.000 - o quelli che morirono in Giappone - 246.000 stimati - dissolti in un nanosecondo dal fuoco delle prime due bombe atomiche.

Strano destino quello dell’uomo, tra aggressione e vendetta, commiserazione e perdono, memoria e oblio. Ecco, la pietà. È la pietà che mi resta”.

Negativi analogici 35mm, elaborati in digitale, stampe realizzate in copia unica - in collaborazione con Acsaf di Cesare Bossi - su carta Magnani emulsionata e successivamente patinata a cera: undici cariche e potenti schegge, provenienti da un’esplosione.

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