La consegna del premio Oscar 2019 per il miglior film alla pellicola di Peter Farrelly, Green Book, è stata accolta dalla stampa e dagli ambienti pseudo-intellettuali “liberal” d’oltreoceano come un affronto imperdonabile che contraddice la loro visione dei rapporti razziali negli Stati Uniti. Le reazioni al riconoscimento, tutt’altro che immeritato, sono da collegare alla campagna in atto da tempo per portare al centro del dibattito pubblico il presunto razzismo innato e senza rimedio che contraddistinguerebbe la società americana e che il film, appunto, mette in discussione con una certa efficacia.

 

L’uscita nelle sale di Green Book era stata accolta inizialmente con favore anche da artisti e politici di colore, da Harry Belafonte a Quincy Jones, fino al deputato democratico ed ex attivista per i diritti civili, John Lewis. In seguito, tuttavia, sono prevalsi di gran lunga i giudizi negativi. La storia (vera) racconta la nascita di un’amicizia inter-razziale e inter-classista negli anni Sessanta del secolo scorso tra l’acclamato pianista Don Shirley, interpretato da Mahershala Ali, e l’autista e guardia del corpo italo-americano Tony Vallelonga (Viggo Mortensen).

 

 

Quest’ultimo viene assunto da Shirley per essere accompagnato in un tour di esibizioni nel sud segregazionista degli Stati Uniti e, rapidamente, il loro rapporto evolve fino a far cambiare radicalmente i pregiudizi razzisti di Vallelonga. Shirley, la cui omosessualità emerge nel corso del film, vive in uno stato di solitudine e depressione che, assieme all’ambiente artistico che frequenta, lo rende estraneo sia alla realtà della “working-class” americana sia a quella in cui è costretta a vivere la popolazione di colore.

 

Il titolo del film si riferisce a una guida turistica che elencava le strutture adatte ai viaggiatori di colore nel sud degli Stati Uniti. Green Book si è aggiudicato anche l’Academy Award per il migliore attore non protagonista (Ali) e per la migliore sceneggiatura originale, alla cui scrittura ha partecipato Nick Vallelonga, figlio del protagonista della pellicola.

 

Al miglior film premiato a Los Angeles nella nottata tra domenica e lunedì è stato attribuito da numerosi media americani un punto di vista “retrogrado” o, nel migliore dei casi, “semplicistico” sulle questioni razziali negli USA. L’accusa agli autori è in sostanza quella di avere trattato questi temi con un approccio troppo ottimistico o, meglio, di considerare il razzismo non come una componente innata della natura umana, ma come una piaga legata a determinate condizioni sociali e politiche e, per questo, superabile attraverso empatia, ragione e cultura.

 

Contro questo punto di vista si è scagliato tutto quel sottobosco di critici e commentatori che propagandano per professione le politiche identitarie negli Stati Uniti. Tra le analisi più assurde della serata degli Oscar si distinguono quelle pubblicate da Los Angeles Times e New York Times. Il primo, dopo una serie di insulti rivolti al film di Peter Farrelly, conclude quasi incredibilmente accusando quest’ultimo di trattare il razzismo come “un problema da risolvere”. Sulla stessa linea è apparsa anche la principale testata “liberal” americana. L’articolo del critico del New York Times Brooks Barnes condanna infatti Green Book perché promuove “l’ideale logoro della riconciliazione razziale”.

 

Polemiche di questo genere sono tutt’altro che nuove negli USA e si basano su una visione secondo la quale le diverse razze vivono realtà e hanno esperienze fondamentalmente inconciliabili – a prescindere dall’appartenenza a una determinata classe sociale – e le tensioni che ne seguono risultano impossibili da risolvere in maniera armonica. Il corollario “artistico” di simili tesi consiste nel sostenere che, ad esempio, un bianco non può rappresentare o interpretare efficacemente la vita, i sentimenti e le esperienze di una persona di colore e viceversa.

 

Dietro a queste posizioni si nascondono disegni politici ben precisi, riferibili in larga misura al Partito Democratico americano e alla galassia “liberal” nel mondo dei media e della cultura. La promozione di questi concetti, essi stessi di fatto e paradossalmente razzisti, serve in definitiva a far credere che il vero problema della società americana odierna non sia il carattere oligarchico del sistema politico ed economico o le esplosive differenze sociali, bensì il razzismo innato dei bianchi americani, soprattutto se appartenenti alle classi inferiori.

 

La supposta incomprensione tra i vari gruppi razziali comporta una serie di conclusioni che hanno poco o nessun senso e, per quanto riguarda il cinema e la cerimonia degli Oscar, escludono un giudizio razionale sulla qualità artistica dei film candidati ai vari premi. Infatti , Green Book è stato frequentemente criticato in questi giorni perché, come ha scritto sempre il New York Times, “realizzato da un cast prevalentemente bianco, inclusi il regista e gli sceneggiatori”.

 

Sostenere che solo un artista di colore possa dare vita a una rappresentazione che parla della vita degli afro-americani o dei problemi razziali che coinvolgono i neri è un concetto oggettivamente assurdo, ma sembra essere oggi uno dei principi cardine del “progressismo” americano, se non il banco di prova stesso delle credenziali “liberal” di un intellettuale o di una determinata istituzione.

 

Artisticamente parlando, concezioni simili riducono a puri stereotipi razziali i protagonisti e il contenuto di un film o di un romanzo. Tanto è vero che la stessa critica che ha polemizzato sul premio a Green Book ha invece osannato il successo nella categoria di migliore sceneggiatura non originale del film BlacKkKlansman di Spike Lee, costruito su un’immagine stereotipata e manichea del conflitto razziale, visto come elemento assoluto e fuori dalla realtà storica e sociale.

 

Che i film di Spike Lee e altri ancora, come Black Panther, anch’esso candidato agli Oscar e vincitore di tre premi “minori”, esprimano una visione reazionaria e distorta della società, nonostante siano acclamati in certi ambienti “liberal” fissati con le questioni identitarie, è confermato dal genere di ammiratori che hanno trovato. Secondo il Washington Post, ad esempio, Black Panther risulterebbe gradito ai “nazionalisti bianchi” perché “in linea con le loro tesi sulla necessità di creare stati-nazione organizzati sulla base di gruppi etnici” separati. Ancora, Spike Lee e la sua opera sarebbero oggetto di “rispetto” da parte del famigerato leader dell’estrema destra americana, nonché ex Gran Maestro del Ku Klux Klan, David Duke.

 

La polemica su Green Book ha inevitabilmente riacceso i riflettori sulla composizione e il possibile “razzismo” dei membri dell’Academy, rispolverando le accuse che tre anni fa avevano preceduto e seguito un’edizione degli Oscar considerata non sufficientemente rappresentativa delle minoranze razziali. Il giudizio sui film in concorso e la stessa legittimità di coloro che votano per l’assegnazione dei riconoscimenti dovrebbero dipendere così dalla quantità di attori, registi, sceneggiatori di colore, ispanici o asiatici nominati e premiati.

 

Se la stessa Academy ha mostrato di volersi adeguare a questa campagna, il premio a Green Book rappresenta tuttavia una gradita rottura. Se il razzismo è evidentemente tuttora presente negli USA come altrove e costituisce un problema reale, esso è in realtà in primo luogo un aspetto indissolubilmente legato a determinate situazioni sociali. Inoltre, il razzismo è spesso utilizzato come uno strumento demagogico dalle classi dirigenti per i propri fini politici, in modo da dividere le classi più disagiate distogliendone l’attenzione dalle problematiche economiche e sociali che determinano effettivamente le loro condizioni.

 

Le qualità di un film come Green Book, pur con tutte le sue debolezze, risiede precisamente nel trattare i propri personaggi come tali e non come stereotipi razziali, promuovendo la cultura e la solidarietà umana come antidoti contro il razzismo e il degrado sociale che, al contrario, gli ambienti pseudo-progressisti americani vorrebbero come dati inalterabili di una società divisa lungo linee razziali e di genere a loro dire inconciliabili.

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