di Agnese Licata

Sceglie le parole di William Shakespeare, Nadine Gordimer. Lei, scrittrice afrikaner che nel Sud Africa dell’apartheid ha lottato a fianco dei neri e dell’African National Congress, lei sceglie un passo del “Mercante di Venezia” per parlare delle nuove generazioni di scrittori africani, di colonialismo, di un mondo in cui sempre più spesso prevale l’isolazionismo delle culture, delle religioni, delle classi sociali. “(…) sono un nero. Non ha occhi, un nero? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Se lo pungete non sanguina? Non si ammala delle stesse malattie? E non si cura con le stesse medicine?… ” (monologo dell’usuraio ebreo Shylock, atto III, scena I). “I’m black”, invece della versione shakespeariana “I’m Jewish” (sono un ebreo). Così sceglie di cominciare la sua lectio magistralis questa esile ma battagliera donna bianca di ottantatre anni, arrivata a Torino da Johannesburg per un convegno sulla letteratura africana organizzato dal Premio Grinzane Cavour. E lo fa per dimostrare a tutti – europei, indiani, americani, ma soprattutto africani –che trincerarsi nella propria cultura e nel proprio tempo, rifiutare il contatto con l’”altro”, non può che impoverirci. Perché gli aspetti umani accomunano molto più di quanto le culture dividano. E così, anche in una vecchia opera come “Il mercante di Venezia” si può trovare un “pezzo di se stessi” e della propria vita, nonostante apparentemente descriva uomini e problemi lontani.

“Tempo fa – racconta Nadine Gordimer – ho partecipato a Johannesburg alla celebrazione del Giorno dello scrittore, in un quartiere abitato principalmente da neri”. Dopo aver letto alcuni brani, racconti, poesie, è il confronto con il giovane pubblico a colpire maggiormente la scrittrice. “Abbiamo chiesto loro cosa preferissero leggere e ci ha inquietato l’omogeneità delle risposte: leggevano tutti gli stessi autori africani”, esclusivamente africani. “I giovani dicono di voler leggere solo quello che li riguarda”, trovano “troppo lontano” Dostoijeski e si sentono inutilmente “ingozzati di Shakespeare” a scuola. Ma “il legittimo orgoglio per la letteratura africana non dovrebbe creare ghetti. Ne sono stati creati già troppi”, spiega con rammarico.

Spesso si è portati a considerare il mondo della letteratura come un settore elitario, che riflette solo in minima parte la società nel suo complesso, con tutti i suoi cambiamenti. L’esempio dei giovani scrittori sudafricani dimostra quanto niente sia più sbagliato, quanto anche le loro letture siano lo specchio di una sempre più diffusa paura (se non, forse peggio ancora, indifferenza) verso l’“altro”. “People feel boxed in their singular identities”, ha detto la Gordimer durante la conferenza stampa, mimando con le mani una piccola scatola per sottolineare l’importanza della sua affermazione. “Le persone – insomma – si sentono come rinchiuse nelle scatole delle proprie singole identità: sono un ebreo, un nero, un cristiano, un musulmano…” Da qui all’intolleranza e al razzismo il passo è davvero breve. Disinnescare questo processo non è semplice. Di certo però, non si può non passare da “loro”: i libri. “I giovani dovrebbero essere spinti a leggere molto”, superando le barriere nazionali e culturali. Perché solo così, spiega la scrittrice sudafricana premio Nobel nel 1991, anche la letteratura che le nuove generazioni creeranno potrà contribuire a far crescere la coscienza civile e politica dei cittadini del mondo. Proprio come hanno contribuito i libri di Nadine Gordimer (tra cui “Luglio”, “La figlia di Burger”, “Un’arma in casa” e il più recente “Sveglia!”, tutti editi da Feltrinelli), dove un difficile contesto sociale e politico viene mostrato e denunciato attraverso le storie e le prospettive particolari dei suoi personaggi.

Nel caso dell’Africa, però, questo arroccamento delle culture è anche frutto dell’esigenza di affrancarsi da un colonialismo che ha imposto alla cultura africana la sua distorta immagine dell’Africa. “Ma oggi – sottolinea la Gordimer durante la sua lectio – l’Africa è se stessa, non è più l’invenzione degli altri. Ha fondamenta sufficientemente profonde da permetterci di creare una nuova cultura”, una cultura che sia africana e solo africana. Ma un’identità che sia forte non può prescindere dall’incontro con le altre culture, spiegava il filosofo indiano Edward Said nel suo libro “Orientalismo” (non a caso citato dalla scrittrice).

Ascoltando le parole di Nadine Gordimer si capisce che a minare la ricchezza della letteratura africana (come di quella mondiale), la sua capacità d’interpretare con lungimiranza i cambiamenti della società, contribuisce anche un altro elemento: il dominio dell’immagine contro la parola scritta. “Almeno una generazione è cresciuta guardando la tv e non leggendo. Anche nelle bidonville non mancano le antenne. Il risultato è che il vocabolario dei giovani scrittori è quello povero, tipico della televisione. Ma devo ancora trovare qualcuno che mi dimostri che Un’immagine vale più di mille parole. L’immagine della tv è fatta di ombre, rimane sullo schermo solo fino a quando c’è la corrente. La parola scritta, invece, sta lì, nella propria tasca, può essere letta sempre, non muore mai”. Da qui la paura che, a causa delle nuove tecnologie, dei libri elettronici, “una parte del pubblico verrà privata della possibilità di leggere i libri nella loro fisicità”.

È questo l’unico momento in cui l”ottimismo realista” di Nadine Gordimer sembra tendere al pessimismo. Quando parla invece della situazione politica del suo Paese, il Sud Africa, delle accuse di corruzione e molestie sessuali cadute su alcuni membri dell’African National Congress (su tutti Zuma) afferma di non condividere in pieno la disillusione che André Brink (anche lui tra i più importanti scrittori sudafricani ad aver abbracciato la causa di Mandela). “In Sud Africa abbiamo molti problemi, come la corruzione, la criminalità e, soprattutto, la distanza tra ricchi e poveri. Però abbiamo una stampa libera, capace di denunciare tutto questo in modo trasparente. E comunque – continua - si tratta di problemi che riguardano tutti i Paesi del mondo, anche quelli europei che hanno una democrazia ben più consolidata della nostra. Si pretende dal Sud Africa una democrazia perfetta, nonostante abbia solo sedici anni, e a dispetto di esempi come quello degli Stati Uniti”. Nonostante tutto ciò, questa piccola grande donna non rinuncia al suo “ottimismo realista”, non rinuncia a credere che anche la forza etica e morale di un libro, di una parola scritta, possa contribuire a cambiare il mondo.

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