di Agnese Licata

Che gli americani fossero un popolo di utilitaristi, non è mai stato un mistero per nessuno. Considerare inferiore - se non superfluo - tutto ciò che non ha un ritorno immediato è un ragionamento che oltreoceano viene applicato non solo alla politica e all’economia (dove l’obiettivo della rielezione oscura qualsiasi progetto di lungo periodo, in Usa come nel resto del mondo), ma anche al mondo della cultura che, per definizione, dovrebbe essere quanto di più lontano dall’utilità pratica. Leggere un romanzo, assistere a uno spettacolo teatrale, perdersi tra i colori e le forme di un quadro o tra le note di una canzone può divertire, emozionare, far riflettere sul momento storico testimoniato da quell’opera, può, insomma, arricchire la nostra mente, ma certo non il portafoglio. La cultura rappresenta una ricchezza particolarmente preziosa: ogni pezzetto che la compone ci restituisce qualcosa, in un suo modo tutto particolare e unico. Da qui, la necessità di preservarla dal tempo che passa, deteriora e modifica gusti, interessi. Di fronte a questo ruolo di salvaguardia della cultura, le biblioteche americane che fanno? Adottano, anche loro, il più puro utilitarismo. Dato che trovare spazio per i tanti libri – vecchi e nuovi – che vengono pubblicati diventa sempre più difficile e, soprattutto, costoso, la Fair Country Collection della Virginia (la più grande rete regionale, composta da 21 biblioteche) ha deciso di buttarne fuori dagli scaffali qualcuno. E siccome si dice che il pubblico ha sempre ragione, il criterio scelto dal bibliotecario Sam Clay è semplice: se un libro non è stato preso in prestito negli ultimi due anni, allora è possibile eliminarlo. E pazienza se tra questi “condannati” finiscono grandi classici della letteratura americana come “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway o le poesie di Emily Dickinson. Meglio lasciare spazio ai bestseller di John Grisham o Stephen King che ogni anno spopolano nelle librerie. Sarebbe come se le biblioteche italiane, per far posto al “Codice da Vinci” di Dan Brown, eliminassero dagli scaffali qualche opera di Alessandro Manzoni o Giacomo Leopardi.

“Siamo spietati, è vero” ha dichiarato Sam Clay al Washington Post. Aggiungendo che “un libro non è per sempre: è un costo insostenibile avere metri quadri di scaffali di libri sui tulipani per poi scoprire che soltanto uno è stato preso in prestito”. Peccato che un libro sui tulipani sia ben diverso da un classico. E anche se così non fosse, non si vede il perché di questa “dittatura della maggioranza” estesa anche al mondo dei libri. Che editori e librerie private adottino una logica del genere è ormai considerato normale. Il rischio, adesso, è che lo diventi anche per le biblioteche, spazi pensati per far sì che alcune opere, considerate importante testimonianza del nostro passato, siano sempre disponibili a tutti e sottratte alle mode del mercato.

La decisione della Fair Country Collection era arrivata dopo il taglio di 2 milioni di dollari al budget per i libri. La soluzione per risolvere anche i problemi di spazio era stata individuata da Clay in un software, capace di monitorare prestiti e giacenze degli oltre 3 milioni di libri conservati negli scaffali delle sue 21 biblioteche. Quando un libro, qualsiasi esso sia, rimane “fermo” per 24 mesi, ogni singolo bibliotecario può decidere se tenerlo ugualmente a disposizione del pubblico o eliminarlo, magari vendendolo a basso prezzo.
Le nuove tecnologie, tuttavia, metterebbero a disposizione altri strumenti per risolvere il problema dello spazio. Basterebbe, ad esempio, fare una copia digitale dei libri meno letti, garantendone così la sopravvivenza. Ma anche questo ha un costo, un costo destinato ad essere considerato secondario in tempi in cui spese per la difesa e l’esercito sono al primo posto dell’agenda stelle e strisce.

In Italia, una decisione come quella della Fair Country Collection non sarebbe possibile. L’iter da seguire per poter eliminare un libro è lungo e richiede numerosi passaggi prima che un volume possa essere regalato al pubblico. I libri delle biblioteche, infatti, sono beni demaniali e quindi considerati indisponibili. Si arriva così all’estremo da non poter togliere dagli scaffali neanche le opere digitalizzate, in quanto, per legge, è obbligatorio conservare anche la copia originale.

Al di là di tutte queste riflessioni però, una cosa è certa. Non basta garantire la sopravvivenza fisica dei classici. Non basta trovar loro uno spazio tra scaffali superaffollati delle biblioteche pubbliche. La vera vittoria sarebbe farli uscire dalla condanna di presunta noia e pesantezza che li affligge e li costringe a questo strano ruolo di “panda in via di estinzione”.

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