di Liliana Adamo

Percezione primaria, secondo l’effetto Backster: quando nel 1966, Cleve Backster collegò ad una pianta gli elettrodi di un poligrafo, ottenne delle letture che indicavano come le cellule viventi si armonizzano e rispondono al loro ambiente, così  alle emozioni e alle intenzioni umane. Ogni mattina ti svegli ponderando due possibilità: far saltare una diga oppure mettersi a scrivere; Derrick Jensen sembra aver favorito la seconda ipotesi, anche se, qualche volta, dubita della sua scelta.

Ne è a tal punto perplesso, da evocare in noi l’urgenza d’accelerare l’andamento disgregativo della civiltà occidentale, innovando una fresca compatibilità tra umanità e natura. Derrick Jensen non è pazzo, un facile sensazionalista a caccia di notorietà ad esiti populistici, non è un giovane “arrabbiato” tout court, né un profeta della new age.

Come quasi tutti i geni letterari, la sua non è storia semplice. Figlio di un’America raccapricciante e di un padre-padrone della middle class che abusava sessualmente dei propri figli, ha percorso dentro di sé una dolorosa scomposizione tra identità ed eccesso, ponendosi di fronte alla sua vita per contrapporvisi e ricomporla, venirne fuori, a quarant’anni, da scrittore e attivista forte e pensante, muovendosi in scelte difficili ma fondamentali.

Derrick Jensen è scomodo perfino agli engagés delle varie organizzazioni pacifiste d’oltreoceano, che si sono mosse in dissenso alle tesi contenute nel discusso “Endgame part II, Resistance”, una delle sue ultime opere, la più emblematica. Lo scrittore è stato subissato di e-mail e telefonate a dir poco “intimidatorie” da quegli stessi attivisti che non gradiscono l’espressione tratta dal suo libro e largamente adoperata: “To bring down this culture by any means necessary…”, lasciando intuire di non gradire meno che mai, presunti metodi smodatamente “radicali” per attuare un possibile cambiamento di rotta.

L’autodifesa dell’autore? Assediati da una sorta di patologico “lifestylism”, i pacifisti hanno concentrato l’attenzione su un solo concetto, estrapolandolo da una condizione; perché è così difficile ritenere la fine della civiltà come fine di uno sbaglio, perché è così difficile per tutti noi, ammettere che il nostro modello di cultura ponga termine?

Giunto ormai ad una fase discendente, massimamente basato sull’economia postindustriale, sgretolatasi tra sfruttamento e profitto, lo sviluppo occidentale è “sentito” dall’autore conforme alla sua famiglia d’origine, una famiglia in cui l’abuso diventa norma di vita, la violenza, una minaccia costante, le vittime, indifese e dipendenti dal loro stupratore. Un’immagine estrema, patologica a sua volta? Robin Morgan, ispiratrice di battaglie al femminile, parla di una “democrazia della paura”, Jensen, di un “mondo di ferite”.

Enumerarle qui, una per una, è difatti un’eccedenza, ma un concetto primario vale la pena rilevare poiché colpisce nella sua evidente e palese ineluttabilità: per sopravvivere a un mondo simile abbiamo bisogno di raccontare a noi stessi una gran quantità di frottole. Per Jensen, questo è un sistema basato sulla menzogna e mentire è indispensabile per andare avanti. Esempio evidente di sistema abusivo sta nell’identificazione col nostro habitat. Tutti gli animali per sopravvivere ne hanno bisogno e noi, esseri civilizzati serrati nel nostro “ambiente ideale”, siamo pronti a difenderlo fino all’ultimo poiché da questo dipende la nostra vita.

Ma le ragioni di questo sistema edificato sulle menzogne, hanno dimostrato di non preservare il nostro habitat, tanto meno noi stessi; esse sono state installate a dovere per proteggere un unico attore, chi abusa. In pratica, “la democrazia della paura”, si serve della cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, allorché la vittima si allea con il suo carnefice, obbedisce ad una sottomissione psicologica  col suo carnefice,  nella convinzione d’averne un’assoluta necessità per sopravvivere.

Non solo: è perniciosa l’immedesimazione con la sensibilità di chi abusa. Tutte le soluzioni proposte per il riscaldamento globale impugnano un solo dato, quello del capitalismo industriale, unica linea di partenza. Pertanto, sappiamo esattamente che non è quella la linea di partenza, ma il mondo reale, il mondo fisico rappresenta l’origine cui far partire tutte le nostre decisioni; privi della relazione con quel mondo noi non siamo nulla, non andiamo da nessuna parte.

Che fare? Riformare la civiltà? A Jensen è un obiettivo che non interessa, è una faccenda riservata a gran parte di quei pacifisti. Leviamoci le false speranze! La sua è una posizione netta e decisa, una chiamata all’azione: le tesi di“Endgame vol. II” non confidano in una cultura occidentale così accorta da determinare intenzionalmente un modo sensato e sostenibile di vivere. L’evoluzione storica documentata fino ad oggi e i fatti reali dimostrano che non succederà.

Un quesito supplementare esamina come e quando, per libera scelta, questa cultura smetterà di ridurre a niente il mondo naturale, cancellare le altre culture indigene, sfruttare i poveri e uccidere chi sposta l’asse delle nostre regole strategiche. Un interrogativo senza risposta, nessuno sa, siamo troppo occupati fingendo che, fulmineamente, la nostra civiltà subirà una trasformazione magica.

A Jensen interessa che in Canada non ci sono più i gufi maculati (per esempio), e ne stiamo perdendo l’ultimo, e allora, la prima cosa da fare, il primo obiettivo, è capire veramente cosa desideriamo fare del mondo e l’azione che seguirà sarà permettere a tutti i costi che quella creatura sopravvive, è il punto sostanziale, restituirle il suo habitat. Di cosa hanno bisogno i salmoni per continuare a nuotare nei grandi fiumi del nord America? Che siano rimosse le dighe, per ricreare un ambiente naturale appena decente; hanno bisogno che si arresti la pesca industriale (non che si fermi ogni tipo di pesca, ma che ci siano attività selettive), che non s’intensifichi l’agricoltura su scala industriale, causa di scoli inquinanti, che sia sostituita dall’agricoltura biologica.

Jensen non è impregnato di velleità, a lui interessa ridurre il riscaldamento globale e annichilire l’obsoleta economia industriale; adeguatamente potremmo porre ovvie richieste: che introito ci sarà abbattendo una diga per salvare i pesci? Dove sono i proventi immediati salvando gli oceani, i grandi reef, fermando la caccia alle balene? Per salvare noi stessi e il pianeta, siamo tenuti a decidere cos’è primario e cos’è secondario con l’obbligo d’essere drasticamente severi.

“Lungamente abbiamo posto lo spreco a danno della nostra salute, lungamente abbiamo dimenticato come si fa a ritenersi liberi; la maggior parte di noi non ha idea di come si vive nel mondo reale…Non ho mai visto un fiume in piena ricco di pesci. Non ho mai visto un cielo oscurato per giorni da una singola moltitudine di uccelli (tuttavia ho visto cieli oscurati perennemente dallo smog). Come la libertà, egualmente bellezza e fecondità ha il mondo in sé. E’ duro amare qualcosa che non hai mai conosciuto. E’ duro convincersi di lottare per qualcosa che ami ma che credi non sia mai esistito…” (Da “Endgame” vol. I.)

La difesa del mondo naturale come emblema di vita. Chi è Derrick Jensen.

Vive in una piccola città della California del nord e nel 2006, in qualità di scrittore, è stato insignito “persona dell’anno” dalla “Press Action”, tiene corsi di fisica mineralogica e ingegneria alla “Colorado School of Mines” e presso l’MFA, insegna scrittura creativa presso la “Eastern Washington University”, ha creato un laboratorio permanente per i reclusi del penitenziario del “Pelican Bay State”, in California; eppure Derrick Jensen, si distingue soprattutto come attivista ed ecologista.

Da “Language Older Than Words” fino ai due volumi di “Endgame”, egli mette costantemente in discussione la società contemporanea e i suoi valori. I media americani lo indicano vicino al movimento “anarcho-primitivist” di John Zerzan, per il quale l’ascesa del nostro sviluppo è intrinsecamente insostenibile, basata sui rapporti di forza, in disaccordo con l’ambiente e le popolazioni indigene.

Con l’ausilio di una scrittura impareggiabile, le opere di Jensen analizzano scrupolosamente le dominanze presenti nella cultura occidentale nella sua interezza: abuso, odio, violenza, misoginia, distruzione ambientale, ingiustizia. Di conseguenza esorta i lettori a concorrere (fino agli estremismi), perché si esaurisca il ciclo della civiltà industriale.

Lo stesso autore percepisce il mondo naturale come un organismo traslato, una metafora pulsante di vita in opposizione al credo occidentale più comune, secondo cui il mondo è fatto d’oggetti e di risorse da sfruttare. Di questa cultura, la sua scrittura penetra a fondo il  sistema economico che genera (inevitabilmente) non solo “rapporti di forza”, ma anche solitudine, alienazione, giungendo alle massime conseguenze con le guerre di potere, l’odio e la disumanità. Lo stile creativo del non-romanzo unisce la sua voce artistica a motivi di profonda logica e discussione.




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