di Carlo Benedetti

Arrivava a Mosca dal suo esilio americano e si rintanava in quel grattacielo di stile stalinista adagiato sulla Moscova, quello noto a tutti i moscoviti e chiamato “la casa sul lungofiume”. Un palazzone che aveva ospitato negli anni trenta i maggiori esponenti della nomenklatura del Cremlino e che poi, poco a poco, in conseguenza delle purghe, aveva perso molti dei suoi inquilini. E così a Vassilij Pavlovic Aksionov (classe 1932, morto nei giorni scorsi e che era stato bollato, nel periodo sovietico, come “dissidente”) il nuovo potere cercava di addolcire la pillola offrendogli una abitazione di tutto rispetto. Ma ormai “Vassja” era uno straniero. Alle spalle aveva una vita da bohemien e un bel bagaglio di opere letterarie di valore. E così la nuova abitazione moscovita gli fu utile solo per ambientarvi un suo nuovo romanzo: “I piani alti di Mosca”. Un lavoro, appunto, dedicato al ciclopico palazzo fatto costruire da Stalin per rivaleggiare con i grattacieli americani. Un edificio dove viveva l’élite della società sovietica, privilegiati lontani dalle difficoltà della gente comune. E nasceva così un ampio racconto che era una vera e propria indagine picaresco-fantapolitica, dove si agitava un gruppo di giovani che non si riconoscevano negli ideali dello stalinismo. Vestiti tutti in maniera stravagante e coltivando una comune passione per la semiproibita musica jazz.

Figlio di Evgenija Ginzburg (la scrittrice nota per “Viaggio nella vertigine”) Aksionov era stato, agli inizi degli anni Sessanta, uno dei principali rappresentanti della letteratura del disgelo. I suoi libri - “Il biglietto stellato” e “A metà della strada dalla Luna”, sul mondo dei giovani stiljaghi, rappresentanti di una generazione di filo-occidentali - erano accolti dai benpensanti sovietici come opere provocatorie. Vere proprie pagine che erano considerate aggressive nei confronti dell’establishment. Erano, comunque, gli anni del disgelo kruscioviano e la trasgressione cominciava a farsi strada. Ma con la fine degli anni Sessanta - passata la stagione del disgelo - Aksionov cominciò ad essere sempre più considerato come un personaggio fastidioso, indisponente. E la sua prosa - sempre più inventata, fantastica, satirico-grottesca e filosofica - venne osteggiata e messa all’indice.

Tutto si aggravò quando, agli inizi del 1979, Aksionov si unì ad un gruppo di giovani scrittori, poeti ed artisti, dando vita ad una pubblicazione (un dattiloscritto in sette copie riprodotte grazie a fogli di carta carbone) che fu intitolata “Metropol”. Il gruppo redazionale aveva, ovviamente, presentato il testo alle autorità ufficiali proponendo la pubblicazione, ma la risposta della censura fu dura. Anzi, alcuni degli autori furono espulsi dall’Unione degli scrittori. Per Aksionov cominciò il calvario. Si dimise dall’Unione e nel 1980 emigrò negli Usa. Fu subito privato della cittadinanza sovietica. Da allora non aveva più trovato quella pace interiore che aveva sempre cercato. Trovava però sempre la forza per ribadire il suo credo.

Una sera a Mosca, nella sua casa sul Lungofiume, alla domanda relativa al significato del termine “dissidente” rispose che una tale definizione era pur sempre schematica, impropria e in definitiva sbagliata. ”Per me - disse - il mio è un atteggiamento morale e la libertà d’espressione la considero un problema etico-politico”. Parlava così l’ex giovane ribelle di un tempo. Sapeva che la nuova Russia era già un’altra “casa” e, forse, rimpiangeva quegli anni ruggenti del disgelo che lo avevano travolto rendendolo vittima del sistema.

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