di Carlo Benedetti

Se ne vanno in silenzio, come nella tragica ritirata sul Don del 1943, quegli uomini che erano stati mandati al fronte, in Russia, con le squadre dell’Armir che avrebbero dovuto unirsi ai nazisti per marciare sulla piazza Rossa. Ora se ne è andato Mario Rigoni Stern. Aveva 86 anni e con il suo capolavoro “Il sergente della neve” - la nuda e umana storia autobiografica di un alpino in Russia - ha contribuito a tener viva la memoria di un periodo duro ed infame, complesso ed acuto. La sua vicenda e le pagine scritte in tutti questi anni restano - come notò Vittorini dopo aver letto l’opera di Rigoni Stern - “l’unica testimonianza del genere da cui si ricava un’impressione più di carattere estetico che sentimentale o polemico”. E lo scrittore - proprio per sottolineare la continuità storica con le vicende drammatiche della guerra - era poi tornato in Unione Sovietica per un viaggio-pellegrinaggio nei luoghi della disfatta dell’Armir. Era andato nelle terre delle battaglie e aveva riconosciuto foreste e distese, villaggi e nomi per poi riferire in una serie di memorabili reportage. In quella nuova avventura in terra russa lo accompagnò - ricordo - un giovane sovietico (Alexei Hazov) che era allo stesso tempo interprete e guida. E fu, anche per lui, l’occasione di scoprire la profonda realtà di quelle campagne che avevano visto l’odissea comune di soldati dell’Armata Rossa e delle truppe che avevano invaso il paese. Rigoni Stern ammise allora (raccolsi le sue dichiarazioni perché a Mosca ero il corrispondente dell’Unità) che aveva deciso di ripercorrere il Don per tornare alla realtà, per non sentirsi un reduce. Una sorta di missione a metà tra il misticismo e la realtà storica.
E da quella nuova avventura nelle lande ghiacciate della Russia e dell’Ucraina venne fuori anche una testimonianza di parte sovietica che restò fortemente impressa nella vita e nella documentazione dello scrittore.

Lo rivelò lui stesso nel febbraio del 1999 quando rese noto di aver ricevuto dalla città di Pavlovsk sul Don una lettera commovente. Gli scriveva, in perfetto italiano, un capitano dell’Armata Rossa, uno di quelli che stavano dall’altra parte. L’uomo - Dimitrij Solodovcenko - così si presentava: “Caro Mario, ti scrive Dmitrij… Ho letto Il sergente della neve… Ed io sono proprio di questi luoghi… Lei non mi conosce, ma una volta ci siamo incontrati: sono un ex capitano dell’Armata Rossa: ho letto qui a Leningrado un suo libro che parla della nostra guerra e le posso dire che la notte del 27 gennaio 1943 ci siamo sparati addosso l’uno contro l’altro e per fortuna non ci siamo colpiti a morte. Ma io sono rimasto ferito. Ora sono a casa mia e sto bene. Vorrei tanto venirla a trovare assieme a mia figlia che parla italiano; ma se lei dovesse venire qui la mia casa è aperta…”.

La risposta di Rigoni non mi è nota. Ma lo scrittore, da vero testimone di quei fatti, volle subito rilevare che “la notte del 27 gennaio 1943 io non ho sparato… Il 26, si. E forse sarà stata la sera del 26, tra le isbe dopo il terrapieno della ferrovia…”. Ricordi di guerra e di vita. Ora arriva il silenzio anche per l’alpino che andò sul fronte russo. E si torna a ricordare altri nomi che parteciparono a quella avventura: da Giuseppe Lamberti, ultimo comandante del battaglione Cervino, allo scrittore Fidia Gambetti; dal docente di storia dell’Europa orientale Valdo Zilli a Nuto Revelli, quell’indimenticabile scrittore della “Strada del Davai”. Quella strada lungo la quale non ci si doveva fermare, perché i contadini russi spingevano i soldati italiani in fuga con il loro “davai, davai” e cioè “avanti, avanti”. Rigoni Stern, ricordandolo oggi, è andato sempre avanti, pur sapendo che la storia non avanza in linea retta.

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