di Massimiliano Ferraro

L’affondamento nel Mediterraneo di vecchie navi mercantili cariche di rifiuti tossici e radioattivi è un capitolo della storia italiana ancora in buona parte oscuro. Un fenomeno dibattuto su cui tutte le ipotesi restano ancora plausibili secondo la logica. Le hanno chiamate navi dei veleni, ma per i governi che via via si sono succeduti fino ad oggi non sono mai esistite. Eppure secondo Francesco Fonti, controverso pentito di ‘ndrangheta, fin dagli anni settanta dei rappresentanti dello Stato avrebbero trattato con la malavita le condizioni per fare sparire illegalmente scorie e veleni scomodi. Confessioni le sue che nel 2005 hanno aperto scenari impensabili e dolorosi ai quali si è infine deciso di non tenere conto.

Siamo in Italia, il paese dei segreti inconfessabili, dove si è abituati a camminare in equilibrio sul filo sottile che separa la dietrologia dalla vergogna. Tuttavia, vent’anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, di cui ancora si scoprono agghiaccianti verità nascoste, le parole di Fonti meriterebbero una rinnovata attenzione da parte della magistratura e dei media. Se fosse tutto vero, quante e quali navi tossiche sono state affondate nei nostri mari? Per ordine di chi?

Forse è ancora possibile provare a risalire a qualcuno che conosce la risposta a queste e ad altre domande: un uomo alto circa un metro ottanta, sui sessant’anni, che quando ne aveva trenta di meno aveva un fisico atletico e una chioma di capelli castani ben pettinati all’indietro. Non sappiamo il suo vero nome, ma conosciamo lo pseudonimo con il quale era noto alla segreteria del Servizio Segreto Militare: Pino. È lui la persona da cercare, quello che sa, il rappresentante dello Stato nell’affare miliardario dello smaltimento illecito dei veleni.

Oggi l’agente Pino potrebbe essere un normale pensionato, pagato a peso d’oro con quella che nei servizi segreti chiamano “indennità di silenzio”. Oppure, chissà, questo mister X che nemmeno gli attuali vertici dell’intelligence sono riusciti ad identificare, si aggira ancora nei corridoi di quei palazzi del potere che sono stati gli unici testimoni dei più torbidi intrighi della Repubblica. Protetto, intoccabile, inidentificabile. Perché «il traffico di rifiuti se non ha delle connivenze istituzionali non può andare avanti. È un traffico fatto da multinazionali, da governi e non da trafficanti». Parola di Francesco Fonti.

«Devo parlare con Pino». Aprile 1978, l’Italia è sconvolta dal sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Nei lunghi giorni che precedettero l’assassinio dello statista, Francesco Fonti sostiene di essere stato convocato in Calabria dai vertici della sua cosca, i Romeo di San Luca. L’ordine è preciso: deve andare a Roma perché la Democrazia Cristiana calabrese vuole che si faccia qualcosa per liberare Moro. Sprazzi foschi di storia italiana che si intrecciano in quell’occasione con la vicenda delle navi dei veleni. All’hotel Palace di via Nazionale, Fonti dice di aver incontrato alcuni agenti dei servizi segreti. C’era un tizio tra loro, un certo Pino, che sarebbe diventato da quel momento in poi il referente della mafia calabrese nell’indefinibile intreccio con il mondo degli affari e della politica nel business delle navi a perdere.

Le aziende, soprattutto industrie chimiche e farmaceutiche, italiane ed europee, avevano migliaia di tonnellate di rifiuti di cui disfarsi al miglior prezzo possibile e la criminalità organizzata offriva un servizio veloce e conveniente. La descrizione fatta dal pentito di quel sistema torbido di interessi e malaffare impressiona per la sua semplicità. Tutti, a detta di Fonti, chiedevano aiuto alle cosche: «Ogni multinazionale aveva il suo referente politico che attivava ogni volta che ne aveva necessità. Questi poi, coinvolgeva della questione i servizi segreti i quali ci affidavano il lavoro sporco».

Il «lavoro sporco» cominciava con una telefonata dell’agente Pino a Reggio Calabria, ad un rappresentante della cosca De Stefano, il quale a sua volta informava il capo cosca dei Romeo di mandare Francesco Fonti a Roma: «Da lì telefonavo alla segreteria del SISMI dicendo: “Sono Ciccio devo parlare con Pino”. Poi venivo chiamato al numero dell’albergo, e avveniva l’incontro». Questi gli scarni antefatti che avrebbero preceduto l’affondamento di almeno tre mercantili carichi di rifiuti tossici e radioattivi nei mari calabresi da parte dello stesso Fonti.

Navi come la Cunsky, la Yvonne A e la Voriais Sporadais sarebbero fatte saltare in aria con la dinamite seguendo lo stesso destino di un’altra trentina di imbarcazioni. Un lavoro tutto sommato semplice per la ‘ndrangheta, che fruttava dai 3 ai 30 miliardi di lire per ogni nave.

La Cunsky e le altre navi fantasma. «In qualche misura, per un certo periodo, i servizi segreti hanno gestito lo smaltimento dei rifiuti pericolosi». Ad averlo affermato è una voce al di sopra di ogni sospetto, quella dell’onorevole Gaetano Pecorella, presidente della Commissione parlamentare sul Ciclo dei rifiuti. A questo proposito c’è un documento datato 11 dicembre 1995, ancora al vaglio del Copasir, che rivelerebbe proprio il ruolo del governo italiano nei traffici illeciti svolti nel Mediterraneo e non solo. Un fatto che Pecorella ha ammesso avere «una sua logica, nel senso che i rifiuti pericolosi venivano prodotti dalle aziende di Stato e a un certo punto bisognava eliminarli». Ed eliminarli significava farli sparire con ogni mezzo, anche illegale, visto che allora «non c’era un sistema diverso. Ad esempio i fanghi radioattivi dove sono finiti?».

Centocinquanta bidoni di fanghi sarebbero stati presenti nella stiva della Yvonne A, mercantile battente bandiera albanese che Francesco Fonti ha ammesso di aver affondato a largo di Maratea il 1 gennaio 1992. Altre scorie tossiche sarebbero state a bordo della Voriais Sporadis, colata a picco davanti alle coste di Genzano. Infine la Cunsky, forse fatta saltare in aria con la dinamite davanti al porto di Cetraro. Tutte confessioni da prendere comunque con la dovuta cautela. Leggendo i documenti ufficiali infatti, il cargo Voriais Sporadis risultava affondato nel mar della Cina già nel 1990.

Lo stesso discorso vale anche per la Yvonne A, demolita ad Aliga nel 2004, e per la Cunsky, che i registri navali indicano rottamata in India prima del presunto affondamento descritto dal pentito. Come si potrebbe spiegare tutto ciò? «In base alla mia esperienza», aveva detto nel 2009 un analista dei Lloyd’s al Manifesto, «ci sono navi che sui registri risultano essere state smantellate in posti come Alang, in India, ma ad Alang non ci sono mai arrivate. A volte probabilmente sono state affondate da qualche parte. In altri casi hanno continuato a girare come navi fantasma per qualche tempo». Insomma, una colossale opera di depistaggio.

Di certo nella palpitante ricerca delle navi a perdere pesa come un macigno il mancato ritrovamento della Cunsky, dopo che nel 2009 l’annuncio della presenza di un relitto con la stiva piena di fusti sospetti a largo di Cetraro aveva indotto in molti la speranza di possedere finalmente la prova inconfutabile degli affondamenti illegali nel Mare Nostrum. Dopo i rilevamenti sottomarini compiuti dalla nave oceanografica Mare Oceano, emerse invece che l’imbarcazione adagiata sui fondali del Tirreno calabrese era il piroscafo Catania, affondato nel 1917. Questa almeno è la versione ufficiale dei fatti che non ha però mai del tutto convinto la stampa e gli ambientalisti. Troppa la fretta mostrata dal ministero dell’Ambiente di archiviare il caso e troppa, a detta del sub Francesco Sesso, anche la differenza tra il primo video del relitto realizzato dalla Regione Calabria, che mostrava una nave con la stiva piena di fusti, e quello mostrato successivamente dal governo.

Cosa sono dunque le navi dei veleni? Crude realtà negate al pubblico da non meglio precisate eminenze grigie o fantasie di un ex ‘ndranghetista alla ricerca di notorietà? Gli sforzi dei pochi coraggiosi investigatori che hanno cercato nel corso degli anni di venire a capo di questo mistero non sono stati sufficienti. Spesso hanno dovuto arrendersi ad un clima particolarmente ostile nel quale «forze occulte di non facile identificazione» (così si legge in un appunto del 1996 scritto dal capo del nucleo operativo provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, Antonino Greco) si sono messe in moto per «controllare gli investigatori nel corso della loro attività».

Anche in questo caso c’entrerebbero i servizi segreti, quelli che riuscirono a smorzare l’entusiasmo con cui il capitano Natale De Grazia, personaggio simbolo della lotta all’ecomafia, aveva iniziato ad occuparsi dei traffici illeciti compiuti via mare. Già nel 1995 infatti, ben dieci anni prima del memoriale scritto da Fonti, il capitano De Grazia si diceva certo che tra quegli uomini che frequentavano gli uffici della procura di Reggio Calabria, c’erano elementi «deviati». Personaggi apparentemente “amici” ma temeva agissero per ostacolare il suo lavoro. Forse, opinione che è stata sostenuta da molti, addirittura fino a provocarne l’improvvisa e apparentemente inspiegabile morte, mentre si trovava sul sedile posteriore di una Fiat Tipo diretta a La Spezia per controllare i dati di circa 180 navi.

Veleni soldi e segreti. Rifiuti tossici di cui sbarazzarsi, naufragi, affaristi senza scrupoli, politici compiacenti e mafiosi. Sono le sembianze dell’Entità, quel miscuglio impalpabile di affari, criminalità e Stato che necessita di un collante. Dunque i servizi segreti, quelli considerati «deviati» da Natale De Grazia, potrebbero essere serviti proprio a questo scopo. Uomini come l’enigmatico agente Pino di cui nessuno sembra conoscere l’identità. Anche l’attuale direttore dell’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) Giorgio Piccirillo, che interrogato a luglio del 2011 dalla Commissione Rifiuti ha dichiarato di non avere «elementi di identificazione».

Eppure, per quanto velleitario possa apparire questo tentativo, un punto di partenza per risalire al non identificabile agente Pino c’è. È stato proprio Fonti a rivelare che l’enigmatico 007 gli era stato presentato alla fine degli anni settanta da un altro membro dell’intelligence italiana, Guido Giannettini, alias agente Zeta. Ufficialmente giornalista specializzato in strategie militari, ma in realtà anch’egli agente segreto, nonché attivista di estrema destra, incriminato e poi assolto per la strage di piazza Fontana, Giannettini si descriveva così: «Io sono contro la democrazia. Sono fascista, da sempre. Meglio, sono nazifascista. Uomini come me lavorano perché in Italia si arrivi al colpo di stato militare. O alla guerra civile».

Giannettini era stato collaboratore dell’agenzia di stampa Oltremare, in realtà un’attività di copertura dietro cui si celava un’unità del SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) divenuto poi SID (Servizio Informazioni Difesa). Sarebbe interessante domandare al direttore dell’AISI se nel tentativo di rintracciare l’agente Pino si sia partiti ricostruendo la carriera all’interno dei servizi segreti dei collaboratori dell’agenzia Oltremare, e soprattutto quella dei personaggi presenti al convegno sulla “Guerra Rivoluzionaria”, svolto all’hotel Parco dei Principi di Roma nel 1965 e finanziato dal SIFAR.

Secondo i verbali, a tale riunione parteciparono militari, imprenditori, politici, giornalisti e un gruppo di venti studenti universitari. Ragazzi che nel 1978 avevano ormai all’incirca trent’anni e che avrebbero potuto corrispondere alla descrizione del fantomatico Pino. Forse, incrociando i loro nominativi con quelli inseriti nell’elenco degli 81 giornalisti arruolati dal SID tra il 1966 e il 1968, qualcuno potrebbe risultare presente in entrambe le liste. Il cerchio si restringerebbe ulteriormente se almeno uno dei nomi ricavati corrispondesse con quello dell’agente del SISMI arrivato a Reggio Calabria prima della morte di De Grazia, la cui identità è stata rivelata dal maresciallo Scimone in seduta segreta nel corso della sua deposizione in Commissione Rifiuti del 18 gennaio 2011.

Ancora nomi, false identità, segreti e misteri. Un groviglio nel quale si rischia di sconfinare nell’assurdo, aprendo scenari inimmaginabili. Al momento, l’intera vicenda della navi a perdere è passata sotto silenzio e nessuno a quanto pare sta più indagando sulla figura dell’agente Pino. Anche solo avere la sfrontatezza di cercarlo è come sperare di vedere un fantasma. Impossibile quindi scoprire se le piste che partono dai membri del SIFAR e del SID possano condurre al nome dell’oscuro mediatore di veleni di Stato, o se siano invece solo delle supposizioni senza fondamento.

In mancanza di ulteriori elementi d’indagine, tutto, anche l’esistenza di un canale illegale utilizzato per decenni per smaltire i rifiuti pericolosi, può essere rimessa in discussione. In fondo, nel 2009 a Cetraro non è stata trovata nessuna nave piena di scorie e successivamente il pentito Fonti è stato dichiarato ufficialmente non attendibile dalla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Nel solito fumoso paesaggio che fa da sfondo ai troppi misteri italiani, tutto quanto si pensava di sapere svanisce in un attimo. I pochi indizi vengono smentiti da prove che non è più concesso mettere in discussione, i dubbi si tramutano in assurdità, le domande in stupide leggende, l’indignazione in un sentimento vano.

Ciò che torna a ricordarci che qualcosa di poco chiaro è avvenuto, delle scorie inghiottite dagli abissi, sono invece i dati riproposti ciclicamente da alcune Asl del sud che segnalano l’incidenza nella popolazione di tumori sopra la media. Veleni, soldi, segreti e morte: questa in definitiva e in modo molto semplicistico è la criminalità ambientale che ha avvelenato e avvelena l’Italia. «Il nostro è un paese senza memoria e senza verità», diceva Leonardo Sciascia, «ed io per questo cerco di non dimenticare».

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