di Carlo Musilli

Finché la catastrofe resta lontana migliaia di chilometri ci si può permettere una partecipazione, un interesse di circostanza. Quando il pericolo arriva vicino casa, è il momento di farsi prendere dalla preoccupazione reale. Entro un paio di settimane la British Petroleum, la compagnia petrolifera che ha massacrato l’ecosistema dell’Atlantico centrale e le economie dei paesi vicini, inizierà a scavare un pozzo per l’estrazione di petrolio e gas nel Mediterraneo. A 560 km dalla Sicilia, 591 da Lampedusa.

Per la precisione nel golfo libico di Sirte, lo stesso su cui Gheddafi nei primi anni ’80 ha affermato la sua suprema autorità e dove per tutta risposta nel 1986 una spedizione americana, inviata da Reagan, ha affondato due navi libiche, uccidendo più di 30 persone. Il nuovo pozzo sarà a 1.700 metri di profondità, 200 in più rispetto a quello nel Golfo del Messico.

I sospetti sull’origine di questa nuova fatica della Bp non mancano: pare sia legata alla liberazione di Abdel al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie. Facciamo un passo indietro. Il 21 dicembre 1988, sulla cittadina scozzese di Lockerbie, si schiantano i resti del volo PA 103 della Pan Am, esploso in cielo per la detonazione di un ordigno nascosto nella stiva. Muoiono 270 persone (fra cui 189 americani). Abdel Basset al-Megrahi, ex agente dei servizi segreti libici, viene giudicato colpevole dell’attentato e condannato all’ergastolo nel 2001. Secondo la legge britannica dovrebbe passare in carcere almeno 27 anni, invece il 20 agosto 2009 viene liberato “per ragioni umanitarie”.

Il terrorista - a quanto dicono - è malato terminale di cancro alla prostata, vivrà al massimo altri tre mesi. Seif al-Islam, figlio di Gheddafi, lo va a prendere con l’aereo personale di papà. In patria, al-Megrahi è accolto come l’eroe il cui sacrificio ha permesso la revoca dell’embargo. Peccato che il terrorista non avesse nessuna intenzione di morire entro tre mesi. Non solo è ancora serenamente fra noi, ma lo scorso quattro luglio lo stesso medico che gli aveva pronosticato una morte imminente ha ammesso che potrebbe vivere tranquillamente altri dieci anni.

Veniamo alla Bp. Nel 2007 Tony Hayward, grande capo della compagnia, firma con Tripoli un contratto da 900 milioni di dollari per iniziare l’esplorazione dei fondali libici. Ma il via alle operazioni viene dato, guarda caso, soltanto due anni dopo. Quando al-Megrahi è tornato finalmente a casa.

Il Senato americano ha chiesto a Hayward di presentarsi giovedì davanti alla Commissione per le relazioni internazionali. Gli chiederanno quali pressioni la Bp abbia esercitato sul governo britannico. Le indagini sono partite su richiesta di Frank Lautenberg, senatore democratico del New Jersey. A lui si sono associati altri tre senatori, fra cui Bob Mendez, secondo cui “ci sono evidenti ragioni di credere che questo terrorista sia stato rilasciato sulla base di false informazioni circa la sua salute”.

La Bp ha già negato ogni coinvolgimento. Andrew Gowers, portavoce della multinazionale, ha dichiarato che la compagnia “era consapevole che un rinvio (dell’accordo con la Libia per il trasferimento di prigionieri, ndr) avrebbe potuto avere conseguenze negative per gli interessi commerciali britannici, inclusa la ratifica del contratto della Bp per l’avvio delle esplorazioni, (…) ma non ha mai espresso un parere specifico sulla forma di accordo da prendere”.

Non ci sono prove né che la Bp abbia spinto per il rilascio del terrorista, né che il governo britannico abbia preso quella decisione a tutela di un mero interesse economico. In ogni caso il fatto in sé, per quanto privo di moralità - ed è questa la cosa più sconvolgente - non sarebbe illegale, a meno che non si riesca a dimostrare un effettivo atto di corruzione. Solo la volgare mazzetta farebbe la differenza fra un’azione politica sporca ma abituale e un reato effettivamente perseguibile, fra realpolitik e crimine.

Per dare un’idea del livello di raffinatezza raggiunto dalla diplomazia del capitalismo, è interessante ricordare che all’inizio di luglio il più importante dirigente libico del petrolio ha auspicato che il suo paese investisse nella Bp per avvantaggiarsi del calo dei prezzi dovuto ai “problemi” della compagnia. Non male come investimento quando 900 milioni sono già in cassa.

Nel frattempo Italia, Grecia e Malta non hanno commentato il progetto del nuovo pozzo, mentre schiere di ambientalisti di tutto il mondo temono che si cominci a trivellare davanti alla Libia prima che si concludano le inchieste su quello che è accaduto nel Golfo del Messico. Il Mediterraneo è già uno dei mari al mondo più inquinati dal petrolio ed è chiuso quasi come un lago: il ricambio delle acque superficiali attraverso lo stretto di Gibilterra si completa ogni 90 anni. Anche un piccolo incidente potrebbe avere conseguenze irreversibili.

Per tutta risposta, gli uomini della Bp hanno fatto sapere che “procederanno con grande cautela” e che “faranno tesoro della lezione imparata” nel Golfo del Messico. Davvero rassicurante, detto da una società che per dare di sé un’immagine laboriosa ha diffuso fotografie del suo “Centro crisi” di Huston malamente ritoccate con Photoshop.

 

 

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