Nella crisi mediorientale scatenata dall’aggressione israeliana a Gaza, il fronte libanese resta al centro delle macchinazioni del regime di Netanyahu, con l’ipotesi di un conflitto di vasta scala tra le forze sioniste e Hezbollah tutt’altro che scongiurata nonostante l’aperto scetticismo del governo americano. La visita di questa settimana a Washington del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha avuto al centro delle discussioni proprio la questione della possibile guerra al confine settentrionale. Nessuna delle due parti sembra volere realmente che la situazione precipiti, ma il fallimento delle operazioni militari di Israele nella striscia e la totale assenza di una “exit strategy” da parte di Netanyahu rischiano di portare precisamente a un epilogo a dir poco disastroso.
Sia l’amministrazione Biden sia molte voci all’interno dello stato ebraico stanno mandando messaggi molto chiari circa le difficoltà che Israele incontrerebbe in una guerra aperta contro il partito-milizia sciita libanese. Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha ribadito al suo omologo israeliano che gli USA intendono favorire una soluzione diplomatica allo scontro con Hezbollah. La Casa Bianca nei giorni scorsi aveva fatto sapere al governo libanese che, in caso di guerra, Washington avrebbe appoggiato Israele. Tuttavia, gli avvertimenti mandati all’indirizzo di Netanyahu sembrano tesi a scoraggiare in tutti i modi una decisione in questo senso da parte di Tel Aviv.
Il Financial Times ha scritto ad esempio martedì che esponenti del governo americano avrebbero messo in guardia Netanyahu circa il fatto che Israele si ritroverebbe con “limitate capacità di difesa” nell’eventualità di una guerra aperta con Hezbollah. Le dotazioni militari di quest’ultimo sono enormemente aumentate negli ultimi anni e numerosi studi hanno spiegato come i sistemi di difesa aerei israeliani potrebbero essere sopraffatti nell’arco di pochi giorni o settimane.
In un’intervista a Newsweek, l’ex numero due del Consiglio per la Sicurezza Nazione di Israele, Eran Etzion, che ricopriva questo incarico durante la guerra contro Hezbollah nel 2006, ha affermato che in un conflitto aperto il suo paese finirebbe per essere sconfitto “entro 24 ore”. Hezbollah sarebbe infatti in grado di colpire e distruggere “aree sensibili” in territorio israeliano con un’intensità “mai vista prima”. L’amministratore delegato della compagnia che gestisce la rete elettrica israeliana aveva a sua volta avvertito la scorsa settimana che lo stato ebraico è totalmente impreparato ad una guerra di alta intensità e Hezbollah, con attacchi mirati contro le infrastrutture energetiche, potrebbe rendere Israele “inabitabile” nell’arco di 72 ore.
Secondo stime israeliane, Hezbollah dispone di armamenti avanzati, inclusi droni e missili ad alta precisione, tra cui oltre 30 mila ordigni con un raggio di circa 200 km e altre migliaia che possono arrivare a 300 km. In caso di guerra, potrebbero essere colpiti bersagli a Tel Aviv e in altre città nella parte centrale di Israele, causando effetti devastanti per la vita dei suoi abitanti, per l’economia e i servizi pubblici e privati. Se, insomma, quasi nove mesi di guerra a Gaza hanno avuto un impatto relativamente trascurabile sulla vita di tutti i giorni della grande maggioranza degli israeliani, uno scontro aperto con Hezbollah getterebbe invece nella totale emergenza lo stato ebraico e i suoi abitanti.
Gli Stati Uniti non stanno in ogni caso giocando nessuna carta efficace per fermare l’escalation al confine libanese. Lo strumento a cui ricorre la Casa Bianca sembra essere soltanto la riproposizione dell’inaccettabile piano promosso dall’inviato speciale per il Libano, Amos Hochstein. La proposta prevede, in cambio dello stop alle operazioni militari israeliane, l’arretramento oltre il fiume libanese Litani – circa otto chilometri dal confine – delle forze di Hezbollah e, in una seconda fase, la creazione di una speciale commissione deputata a risolvere le dispute sulla demarcazione della linea di confine tra Israele e Libano.
Il documento messo sul tavolo da Washington ha un duplice obiettivo, nessuno dei quali rivolto a soddisfare gli obiettivi o gli interessi di Hezbollah. Il primo è la stabilizzazione del fronte settentrionale per consentire il ritorno in quest’area di decine di migliaia di coloni israeliani evacuati subito dopo il 7 ottobre per sfuggire ai bombardamenti di Hezbollah. Il secondo l’allentamento delle pressioni da nord sulle forze sioniste, consentendo a queste ultime di meglio concentrarsi sulla pulizia etnica dei palestinesi di Gaza (e Cisgiordania).
La proposta Hochstein è destinata a restare inapplicata perché Hezbollah insiste nel respingere qualsiasi ipotesi di tregua senza la fine dell’aggressione israeliana nella striscia. Anzi, il partito-milizia sciita continua a ostentare sicurezza e a minacciare conseguenze pesantissime per Israele se dovesse esserci un attacco aereo su vasta scala o un’invasione di terra. Nei giorni scorsi, Hezbollah aveva pubblicato un video in cui si vedevano obiettivi israeliani da colpire con le relative esatte coordinate, incluso il reattore nucleare nella località meridionale di Dimona. Il filmato era il risultato di un’operazione condotta con un drone, inviato in territorio israeliano e rientrato indisturbato in Libano.
La retorica aggressiva di Israele non cambia quindi la realtà dei fatti e gli equilibri di forza lungo la linea del confine settentrionale, né le difficoltà che avrebbero gli Stati Uniti nel garantire assistenza militare alla luce degli impegni sui vari fronti nei quali l’amministrazione Biden è invischiata. È legittimo di conseguenza chiedersi i motivi per cui Netanyahu appare deciso a rischiare il tutto per tutto contro Hezbollah. Se, da un lato, il Libano finirebbe per pagare conseguenze gravissime in caso di guerra e, senza dubbio, le prime fasi delle operazioni israeliane provocherebbero un livello considerevole di distruzione oltre il confine settentrionale, Hezbollah sarebbe con ogni probabilità in grado di resistere all’impatto, di rispondere in maniera altrettanto efficace e, soprattutto, di attuare una resistenza attiva sul lungo periodo.
Secondo alcuni commentatori, Israele punterebbe a riproporre la strategia attuata senza successo durante la fallimentare guerra in Libano del 2006. Con metodi ben consolidati assimilabili a crimini di guerra, Netanyahu e le forze sioniste attaccherebbero deliberatamente obiettivi civili con lo scopo di generare frustrazioni se non un’aperta rivolta tra la popolazione libanese contro Hezbollah. Più precisamente, si tratterebbe di fomentare una nuova guerra civile in Libano, sollecitando la mobilitazione dei settori cristiani e sunniti, nonché dell’esercito regolare, contro le milizie sciita.
C’è almeno un altro fattore da considerare nel quadro che si sta delineando. Negli ultimi giorni, esponenti militari e di governo israeliani sono tornati a denunciare l’Iran per l’accelerazione dello sviluppo del programma nucleare che le autorità di Teheran avrebbero ordinato. Già a maggio, la stampa sionista aveva citato anonimi funzionari israeliani che avvertivano come la Repubblica Islamica avesse fatto progressi nella costruzione di testate missilistiche nucleari. Lunedì, anche il deputato ed ex comandante delle forze armate dello stato ebraico, Gadi Eisenkot, nel corso di una conferenza sull’anti-terrorismo si era lanciato nella previsione di un Iran dotato di armi atomiche nell’arco di pochi mesi.
L’insistenza per l’ennesima volta sulla questione del nucleare iraniano dimostra come le opzioni a disposizione di Israele stiano rapidamente diminuendo per uscire dal tunnel in cui Netanyahu si è infilato. Questa dinamica auto-distruttiva si può ricollegare alla questione del fronte libanese, dove in molti in Israele temono che il paese, se non l’intero progetto sionista, rischi di andare verso la rovina. Riproponendo il tema ultra-logoro della minaccia nucleare iraniana, Tel Aviv spera così di convincere gli Stati Uniti a impegnarsi con tutte le proprie forze in una guerra contro Hezbollah, trasformando appunto l’eventuale conflitto in una battaglia definitiva contro l’Asse della Resistenza in Medio Oriente. In parallelo, Israele confida in questo modo in una tacita collaborazione dei regimi sunniti, anch’essi interessati a ridurre il peso iraniano e degli alleati di Teheran nella regione.
Quest’ultimo è chiaramente un piano illusorio e che rischia anzi di peggiorare la situazione per Israele, ma anche per gli Stati Uniti, visto che provocherebbe un ulteriore allargamento del conflitto a forze già ora in grado di impegnare Washington e Tel Aviv ben oltre le proprie capacità belliche. Netanyahu si ritrova in sostanza ad avere solo scalfito le potenzialità di Hamas, nonostante nove mesi di guerra e la distruzione pressoché totale di Gaza, e non è dunque chiaro, a parte il ricorso alle armi atomiche non dichiarate di cui dispone, come potrebbe ottenere risultati migliori contro Hezbollah o addirittura l’Iran. Oltretutto, per il premier israeliano i problemi continuano a moltiplicarsi. La sua coalizione di ultra-destra va verso l’implosione dopo la recente sentenza della Corte Suprema sulla coscrizione degli studenti ortodossi delle scuole religiose, mentre si stanno pericolosamente moltiplicando i segnali di una possibile imminente rottura con i vertici delle forze armate.