Anche se scopi e obiettivi ufficiali dei nuovi dazi, annunciati questa settimana sulle auto di importazione, non corrispondono alle conseguenze che avranno realmente nel breve e medio periodo, il presidente americano Trump ha deciso di procedere con l’ennesima escalation di una guerra commerciale globale sempre più difficile da arginare. A partire dal prossimo 2 aprile, non solo le auto e gli autocarri “leggeri” in ingresso negli Stati Uniti saranno gravati da una tariffa doganale del 25%, ma anche le singole parti di essi, inclusi motori e trasmissioni. Un dettaglio, quest’ultimo, che, in un settore industriale altamente integrato come quello nordamericano, rischia di stravolgere le catene di approvvigionamento e far schizzare i prezzi di vendita anche per le vetture considerate di origine statunitense.
Nella solita ricostruzione semplicistica della realtà di Trump, oltre a esserci una illusoria linea di separazione netta tra le auto costruite in America e quelle straniere, i nuovi dazi dovrebbero favorire in breve tempo il rilancio dell’industria di questo settore negli USA. L’aumento considerevole del costo per i consumatori americani dei mezzi stranieri dovrebbe beneficiare, secondo la sua interpretazione, i produttori indigeni, che si ritroverebbero con un’impennata della domanda, da soddisfare con investimenti in nuovi impianti di assemblaggio e di produzione di componentistica. Se anche ciò dovesse accadere, l’impulso all’industria del settore darebbe risultati concreti, a dir poco, tra parecchi anni.
I paesi più colpiti sono i principali esportatori di auto e di singole parti negli Stati Uniti, ovvero Canada, Messico, Germania, Corea del Sud e Giappone. Nell’immediato, il prezzo di un’auto media potrebbe aumentare, secondo alcune stime, tra i 3 mila e i 10 mila dollari. Un sovrapprezzo considerevole che andrebbe ad aggiungersi ai ritocchi già registrati negli ultimi anni a causa dell’incremento dell’inflazione. I rincari non riguarderanno solo le auto importate, ma appunto anche quelle prodotte sul territorio americano.
La semplificazione di Trump tralascia completamente dal quadro complessivo una realtà fatta di una rete produttiva complessa e strettamente interconnessa, basata sulle agevolazioni introdotte da oltre tre decenni, prima con il trattato di libero scambio NAFTA e poi con il suo successore, USMCA, entrato in vigore nel 2020 proprio su iniziativa dell’attuale presidente durante il suo primo mandato. Le varie componenti delle auto prodotte in Nordamerica possono cioè transitare liberamente oltre i confini di Canada, Messico e USA, rendendo il concetto di vettura “americana” decisamente vago.
I giornali americani hanno proposto alcuni esempi di questa situazione per mostrare l’assurdità delle politiche commerciali trumpiane. Uno di questi e la berlina Nissan Altima, assemblata in fabbriche del Tennessee e del Mississippi, quindi verosimilmente da considerarsi “made in America”. Il suo motore è realizzato però in Giappone e la trasmissione in Canada, quindi queste, e presumibilmente altre parti, saranno gravate dai nuovi dazi facendone salire il prezzo di vendita.
I SUV Chevrolet assemblati in Messico montano invece motori e trasmissioni fatte negli USA. In questo caso, anche se le componenti principali sono americane, la vettura finale sarà forse da considerare straniera. La vendutissima Toyota RAV4, infine, viene importata in America dal Canada, ma il 70% dei suoi componenti viene realizzato negli Stati Uniti. Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma il concetto risulta abbastanza chiaro. La beffa per produttori e automobilisti è oltretutto doppia, visto che questo sistema produttivo integrato è la conseguenza dei termini negoziati dallo stesso Trump attraverso il già ricordato USMCA, fortemente voluto da quest’ultimo in primo luogo per consolidare il mercato nordamericano in funzione anti-cinese.
Per quanto riguarda i paesi asiatici colpiti dai nuovi dazi del 25%, soprattutto per Giappone e Corea del Sud si prospettano serie difficoltà. Le auto sono la prima voce dell’export giapponese. La presenza dei produttori di questo paese negli USA è significativa anche in termini di impianti, ma, ad esempio, la Toyota nel 2023 ha prodotto fuori dagli Stati Uniti circa un milione dei 2,3 milioni di veicoli venduti sul mercato americano. Le tariffe che entreranno in vigore settimana prossima potrebbero costare al Giappone circa lo 0,2% del PIL. Una quota cioè consistente se si pensa che la crescita prevista per il 2025 dell’economia nipponica è appena dello 0.5%.
Le complicazioni maggiori in Europa saranno per la Germania. L’export automobilistico tedesco verso gli USA nel 2024 ha superato i 38 miliardi di dollari. Per l’industria europea si annunciano ulteriori problemi la prossima settimana. Il 2 aprile Trump dovrebbe annunciare infatti anche l’ondata di “dazi reciproci” che andranno a colpire le importazioni da quei paesi che hanno applicato dazi in risposta a quelli inizialmente imposti dall’amministrazione repubblicana. L’UE aveva stabilito tariffe doganali, che diventeranno anch’esse operative dal primo aprile, come ritorsione contro quelle decise da Trump sulle importazioni di acciaio, alluminio e derivati.
La Commissione Europea non ha potuto che emettere comunicati relativamente duri dopo la diffusione della notizia dei nuovi dazi sulle auto. Ursula von der Leyen ha promesso ulteriori iniziative che andranno a colpire altre categorie di prodotti importati dagli Stati Uniti, ma ciò innescherà un’escalation che aggraverà le tensioni lungo le due sponde dell’Atlantico, senza soluzioni in vista.
Le recriminazioni dei burocrati di Bruxelles sono aggravate dal fatto che l’Europa, dietro le quinte, ha fatto di tutto per mostrare la propria disponibilità ad assecondare gli interessi americani. Il Financial Times ha scritto ad esempio che il commissario UE per il Commercio, Maroš Šefčovič, si era recato recentemente a Washington per provare a ottenere un’esenzione dai dazi sulle auto per l’Europa. Il diplomatico slovacco aveva insistito sul presunto obiettivo comune USA-UE di difendere i rispettivi mercati e sistemi industriali dalle importazioni cinesi. Nonostante il servilismo, il rappresentante della Commissione era tornato in Europa a mani vuote.
Tornando alla strategia commerciale di Trump, è difficile individuare in essa un senso logico, soprattutto alla luce di due fattori. Uno è l’incertezza delle basi legali dei dazi adottati finora, di fatto illegittimi relativamente ai termini dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e dell’USMCA, e il secondo l’opposizione degli stessi produttori di automobili e del business americano, nonché degli alleati più stretti. Per quanto riguarda il primo aspetto, gli scrupoli “legalistici” dell’amministrazione americana in qualsiasi ambito sono pari a zero. Dalle politiche commerciali alla guerra, dai diritti costituzionali alle norme amministrative, Trump ha dimostrato in poco più di due mesi che intende agire senza alcun riguardo per la legge, americana o internazionale.
Più complessa è la questione degli interessi che stanno alla base della guerra commerciale vera e propria che sta scatenando e quali obiettivi reali intenderebbe raggiungere. A volte, almeno fino ad ora, la minaccia di nuovi dazi è rimasta tale, seguita poco dopo da inversioni di rotta una volta ottenute concessioni di varia natura dal destinatario delle misure punitive annunciate. Anche nel caso dei dazi sulle auto, il fatto che manchino ancora alcuni giorni prima della loro entrata in vigore lascia spazio a possibili negoziati o ripensamenti. Trump, da parte sua, ha però assicurato mercoledì che non ci saranno esenzioni, ridimensionamenti delle tariffe o passi indietro e che i dazi dureranno per tutto il suo mandato.
Quello che si può ipotizzare, anche guardando alla storia del ventesimo secolo, in particolare al periodo tra le due guerre mondiali, è che, nonostante i contraccolpi negativi per la stessa economia americana e le tensioni con gli alleati, ci sono fattori oggettivi di respiro più ampio che giustificano per l’amministrazione americana queste politiche commerciali ultra-aggressive. Essi, assieme all’impronta marcatamente nazionalista di tutte le decisioni prese finora, vanno ricondotti ai piani di Trump per concentrare e riorganizzare le forze produttive americane in funzione di un’economia di guerra. Un obiettivo che, evidentemente, si collega alla competizione sempre più aspra tra le grandi potenze a livello internazionale.