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Il tentato assassinio di Donald Trump sabato scorso in Pennsylvania sarà inevitabilmente al centro del dibattito nella convention del Partito Repubblicano che si è aperta lunedì a Milwaukee, nello stato del Wisconsin. Praticamente tutti gli interrogativi più importanti sui fatti del fine settimana restano per il momento senza risposta e, vista l’intensità dello scontro politico interno negli Stati Uniti e le tensioni sociali esplosive che attraversano il paese, nessuno scenario sembra potere essere escluso. Le mancanze del servizio di sicurezza, affidato in primo luogo al Servizio Segreto, ma anche alla polizia locale e alle guardie del corpo personali dell’ex presidente, sono talmente evidenti da far pensare a un possibile complotto per l’eliminazione fisica di quest’ultimo. Qualunque sia la verità dei fatti, Trump appare ora ancora più favorito nelle elezioni di novembre, mentre il fallito attentato aggiunge un ulteriore fattore di difficoltà per un Joe Biden sempre più avviato verso l’addio alla corsa per la Casa Bianca.

 

Se mai sarà possibile farlo, la scoperta di indizi o informazioni concrete sul recente passato dell’attentatore, sulle motivazioni ed eventuali legami o complicità sarà di enorme aiuto nel ricostruire le circostanze dell’accaduto. Nel frattempo, i frammenti emersi disegnano un quadro oscuro e per certi versi contraddittorio. Il 20enne Thomas Matthew Crooks di Bethel Park, Pennsylvania, viene dipinto come un giovane solitario con la passione delle armi, registrato come elettore repubblicano anche se nel giorno dell’inaugurazione di Biden nel 2021 aveva donato una piccola somma a un’organizzazione liberal.

A differenza di altri casi di violenza a sfondo politico negli ultimi anni, non sembra esserci traccia di qualche sua attività sui social media a favore o contro determinati politici, partiti o cause. Fonti di polizia hanno fatto sapere domenica che nelle vicinanze del luogo che ha ospitato il comizio di Trump e dove è avvenuta la sparatoria è stata rinvenuta l’auto di Crooks con dell’esplosivo al suo interno. Per le tesi che sconfinano nel complottismo, invece: quest’ultimo aveva un paio d’anni fa preso parte come comparsa a un video promozionale del colosso americano della finanza, BlackRock.

I fatti raccontano in ogni caso di clamorose falle nella sicurezza. Come un ragazzo apparentemente “qualsiasi” abbia potuto arrampicarsi indisturbato con un fucile AR-15 sul tetto di un edificio a non più di 130 metri da dove un ex e probabile futuro presidente degli Stati Uniti stava parlando alla folla resta inspiegabile. Non solo, testimonianze e video circolati in rete confermano come molti tra il pubblico avessero avvertito le forze di sicurezza della presenza di un individuo armato in posizione di tiro svariati minuti prima dell’attentato a Trump, ma nessuno ha mosso un dito per fermarlo.

Due cecchini posizionati sul tetto di un edificio all’altezza del palco dove stava parlando Trump sono stati visti osservare con ogni probabilità l’attentatore, a conferma che il pericolo era stato individuato senza possibilità di errore. Uno dei due, tuttavia, ha fatto fuoco, uccidendo Crooks, solo dopo i colpi sparati verso Trump, che, com’è noto, hanno colpito di striscio la parte superiore dell’orecchio destro dell’ex presidente, ucciso un uomo tra il pubblico e ferito altri due in maniera seria. La distanza dal palco dell’edificio da dove Crooks ha sparato è tale che il servizio di sicurezza dell’evento di sabato lo avrebbe dovuto rendere totalmente inaccessibile. Non esistono per ora giustificazioni per il fatto che ciò non sia avvenuto. Il cecchino che ha in seguito ucciso Crooks sembrerebbe inoltre avere avuto l’ordine dal suo superiore di non sparare preventivamente al 20enne nonostante fosse stato individuato con un’arma pronta a fare fuoco in direzione di Trump.

A prima vista, questi “errori” sembrano altamente sospetti, così da far pensare a una versione più sinistra. Se si osservano però le modalità con cui la squadra del Servizio Segreto è intervenuta subito dopo gli spari per cercare di mettere al sicuro Trump, i buchi nella sicurezza risultano in larga misura plausibili. Contravvenendo a tutte le norme previste in casi simili, le guardie del corpo hanno sollevato immediatamente Trump dopo che si era istintivamente abbassato per evitare altri possibili colpi, esponendolo di nuovo e per parecchi secondi alla traiettoria del fuoco.

In alcune immagini si vede anche almeno un agente donna del team del Servizio Segreto che, invece di fare scudo a Trump, cerca riparo dietro il presidente e i colleghi intervenuti. L’ex presidente repubblicano è stato alla fine tardivamente accompagnato verso la sua auto e, mentre viene messo al sicuro, un paio di agenti si agitano in modo confuso davanti al mezzo dando l’impressione di non sapere come muoversi. Una componente della squadra cerca anche di infilare nervosamente la propria arma nella fondina per parecchi secondi senza riuscire a individuare il punto esatto.

Parlare di impreparazione è dunque un eufemismo e la performance della squadra deputata alla protezione di Trump è perfettamente in linea con i dubbi sollevati nei mesi scorsi sul comportamento del Servizio Segreto americano, tradizionalmente incaricato della protezione di presidenti, ex presidenti, famigliari di questi ultimi e candidati alla Casa Bianca. Detto questo, la storia americana e la pratica ricorrente della violenza nel regolamento di conti a livello politico – sia sul fronte domestico sia soprattutto su quello internazionale – da parte della classe dirigente USA e dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” lasciano la porta aperta a qualsiasi ipotesi.

Va ricordato che l’anno elettorale 2024 è stato caratterizzato finora da una campagna giudiziaria per colpire Donald Trump e ostacolare la sua candidatura alla Casa Bianca. La condanna subita nel processo per il caso “Stormy Daniel” a New York ne è un esempio, mentre altri procedimenti sono ancora in corso, anche se una recente sentenza della Corte Suprema ha in gran parte neutralizzato queste manovre, assegnando – con il riferimento a una assurda nuova teoria legale/costituzionale – la sostanziale immunità al presidente degli Stati Uniti.

Questi fatti sono il sintomo e il risultato di una guerra interna agli ambienti di potere americani, con l’apparato neo-con a cui fa riferimento buona parte di entrambi i principali partiti americani, così come l’amministrazione Biden, che vedono con estrema apprensione un secondo mandato di Trump alla guida del paese. In assenza di prove, non è possibile ovviamente concludere che il tentato assassinio dell’ex presidente sia stato organizzato dal Deep state, dalla CIA o tantomeno dalla Casa Bianca, ma nel clima tossico di questi mesi è del tutto possibile – come minimo – che l’autore materiale dell’attentato sia stato in qualche modo influenzato da queste circostanze. Il riferimento immediato per una situazione simile è quello del primo ministro slovacco, Robert Fico, colpito gravemente da colpi di arma da fuoco lo scorso mese di maggio e anch’egli molto critico verso il coinvolgimento della NATO nella guerra in Ucraina.

Tra i sostenitori di Trump e ai vertici dello stesso Partito Repubblicano non sono mancate in queste ore le denunce nei confronti della retorica dei colleghi democratici e del presidente Biden, spesso vicina a giustificare possibili azioni violente contro l’ex inquilino della Casa Bianca. L’appello più o meno diretto alla violenza per regolare i conti politici è tuttavia una peculiarità proprio dello stesso Trump che, fin dai tempi del suo primo mandato, non ha mai risparmiato provocazioni, strizzate d’occhio o aperti inviti all’uso della forza. Basti ricordare, a questo proposito, gli elogi espressi ai neo-nazisti che nel 2017 uccisero nel corso di una manifestazione in Virginia una militante antifascista. Oppure all’aperto sostegno mostrato al teenager di ultra-destra Kyle Rittenhouse dopo che aveva sparato a tre uomini, uccidendone due, nel corso di una contro-manifestazione per reprimere le proteste esplose nell’agosto 2020 contro le violenze della polizia nello stato del Wisconsin.

L’episodio più macroscopico è naturalmente l’assalto all’edificio del Congresso il 6 gennaio 2021, fomentato da Trump nel corso di un discorso pubblico di fronte alla Casa Bianca. I suoi sostenitori furono di fatto inviati a Capitol Hill per fermare la ratifica dell’elezione di Biden, con gli organizzatori dell’assalto, riconducibili all’entourage di Trump, pronti a scatenare violenze che prevedevano possibili assassini di quei politici che si sarebbero opposti al piano eversivo.

Più in generale, l’uso della violenza sistematica nella conduzione degli affari internazionali da parte degli Stati Uniti si riflette sulle condizioni politiche e sociali domestiche. In altre parole e solo per limitarsi agli aventi più recenti, un paese il cui governo istiga per i propri interessi una guerra devastante come quella russo-ucraina, mettendo a rischio l’esistenza di un intero paese (Ucraina), o facilita un genocidio, come quello palestinese per mano di Israele, non può che assistere a esplosivi livelli di violenza sul fronte interno e all’uso di essa per regolare i conti tra le proprie élites.

Soprattutto se Trump fosse stato ucciso, e questa eventualità è stata scongiurata letteralmente per qualche millimetro, è del tutto possibile che gli USA si sarebbero avviati a grandi passi verso una vera e propria guerra civile. Alla luce delle tensioni sociali e delle divisioni lungo linee politiche e di classe che caratterizzano questo paese, nonché dell’ampia disponibilità di armi, non è da escludere che l’assassinio del favorito nella corsa alla presidenza avrebbe scatenato la mobilitazione dell’estrema destra e degli ambienti paramilitari che gravitano attorno ad essa, assieme a una ferma opposizione popolare.

Uno scenario di questo genere, per nulla scongiurato nonostante il fallimento dell’attentato, è ciò che inquieta maggiormente la classe dirigente d’oltreoceano, terrorizzata dalla possibilità che la situazione possa sfuggire di mano e minacciare il sistema. Se Trump resta un pericolo per la sua natura imprevedibile e la prospettiva di un ribaltamento degli obiettivi di politica estera di Washington in un suo secondo mandato, come ad esempio l’abbassamento delle tensioni con Mosca e il venir meno dell’appoggio al regime ucraino, un pericolo ancora maggiore è rappresentato dalla polveriera pronta a esplodere che è la società americana, controllata da un’oligarchia onnipotente e una classe politica ultra-screditata.

Per questa ragione, subito dopo i fatti di sabato, il presidente Biden ha fatto un appello pubblico all’unità del paese, proponendo un illusorio scenario di armonia da ritrovare in una realtà invece profondamente e irrimediabilmente lacerata. Lo stesso Trump ha fatto sapere lunedì di volere cambiare totalmente il tono del suo discorso per l’accettazione della nomination nella convention di Milwaukee. Anch’egli ha infatti promesso di abbassare i toni dello scontro per “ricomporre” l’America.

È probabile che Trump, sull’onda della popolarità regalatagli dal fallito attentato, punti ad allargare la propria base elettorale proiettando un’immagine meno controversa e più “presidenziale”. Allo stesso tempo, però, in quanto uomo in tutto e per tutto del sistema, intende contribuire in qualche modo a ridurre le tensioni, allontanando lo spettro della guerra civile in un frangente storico segnato dalla crisi terminale della “democrazia” americana.

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