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A meno di tredici mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Robert F. Kennedy jr. ha deciso di rompere ufficialmente con la tradizione famigliare e di abbandonare il Partito Democratico per partecipare alla corsa alla Casa Bianca da candidato indipendente. Figlio di Bobby Kennedy e nipote di JFK, l’avvocato e attivista appartenente a una delle dinastie politiche americane più note e influenti era entrato nella competizione lo scorso aprile, facendo segnare quasi subito livelli di gradimento di tutto rispetto nonostante l’ostilità dei media mainstream e del suo stesso partito. Da “indipendente”, Kennedy jr. potrebbe intercettare voti tra gli elettori democratici e repubblicani, anche se l’immediata riconoscibilità del nome e l’insistenza su un’agenda marcatamente “anti-sistema” non gli saranno con ogni probabilità sufficienti a rompere il monopolio dei due principali partiti che dominano la scena politica americana.

 

Storicamente, negli USA qualsiasi candidato di un certo peso che minacci di scardinare il sistema consolidato o di superare nelle primarie il favorito dell’establishment di uno o dell’altro partito viene preso di mira da una campagna mediatica e politica più o meno feroce. L’obiettivo è in genere di fare apparire le posizioni del candidato in questione come troppo estreme per l’attitudine essenzialmente moderata dell’elettorato americano. In aggiunta o in alternativa, l’accusa più rodata, soprattutto tra i democratici, è di giocare il ruolo di guastatore che, senza speranza di successo, sottrae voti al candidato del partito a cui è ideologicamente più vicino, finendo per favorire il rivale di quest’ultimo.

Nel caso di Kennedy jr., la decisione di uscire dal Partito Democratico dipende in primo luogo dalla consapevolezza che la sua partecipazione alle primarie sarebbe stata ostacolata in tutti i modi. Egli stesso aveva avvertito che i vertici democratici sarebbero arrivati anche a cambiare le regole del voto per favorire la candidatura del presidente Biden. I precedenti sono d’altra parte inequivocabili e i casi più recenti riguardano la candidatura di Bernie Sanders nel 2016 e nel 2020, quando, durante le primarie, i leader del Partito Democratico si mobilitarono per escludere il candidato autodefinitosi “socialista” e salvare le candidature rispettivamente di Hillary Clinton e Joe Biden.

Sul piano politico, invece, la credibilità del messaggio populista di Kenendy jr., che prende costantemente di mira un sistema corrotto e impenetrabile, passa appunto dallo sganciamento anche formale dal bipartitismo, essendo i democratici e i repubblicani due facce della stessa medaglia. Una scelta, quella di prendere le distanze il più possibile dai due maggiori partiti, che per una candidatura che vuole essere credibile risulta indispensabile soprattutto alla luce dell’impronta data alla campagna elettorale da colui che è oggi a tutti gli effetti il favorito nella corsa alla Casa Bianca, ovvero Donald Trump. L’ex presidente sta infatti riproponendo l’immagine di “outsider” che intende scuotere il sistema, esattamente come fece con successo nel 2016.

La candidatura del neo-indipendente Robert F. Kennedy jr. va letta esattamente in questa prospettiva. Egli stesso lo ha chiarito nel discorso di lunedì a Philadelphia nel quale ha annunciato l’addio al Partito Democratico. Kennedy jr. ha affermato la sua “indipendenza dai due partiti e dagli interessi corrotti che li dominano”, nonché dall’intero sistema truccato”, dominato da “rabbia, corruzione e menzogne che hanno trasformato gli esponenti del governo in servi dei loro padroni nel mondo degli affari”.

Non sorprende molto il fatto che alcuni dei parenti più prossimi di Kennedy jr., quasi tutti impegnati politicamente per il Partito Democratico, abbiano subito preso le distanze dalla sua decisione di correre da indipendente. Nelle dichiarazioni ufficiali si è fatto puntualmente riferimento al “pericolo” che la scelta di Kennedy jr. rappresenterebbe per gli Stati Uniti. Un pericolo che in questa prospettiva coinciderebbe con la possibile sconfitta del candidato democratico, cioè il presidente Biden. In una prospettiva più ampia, le critiche contro il nipote di JFK, così come contro tutti i candidati svincolati dai due partiti principali, nascondono una seria preoccupazione per qualsiasi anche minimo segnale concreto del possibile sgretolarsi del sistema bipartitico americano.

Quando minacciati, i democratici rispolverano quindi la tesi collaudata del male minore. Nel caso attuale, denunciando Kennedy jr. perché potenzialmente responsabile, col suo comportamento, di consegnare la vittoria a Trump e ai repubblicani, se non addirittura di contribuire a distruggere la “democrazia” americana.

Robert F. Kennedy jr. potrà ad ogni modo evitare gli attacchi degli ex compagni di partito nel corso delle primarie e concentrarsi sulla sua campagna elettorale. I problemi saranno ugualmente enormi, in particolare per quanto riguarda l’accesso ai mezzi di informazione tradizionali. Il grado di riuscita della sua candidatura dipenderà in larga misura dall’evoluzione del quadro politico ed economico americano e internazionale, visto che Kennedy jr. ha impostato la campagna per la Casa Bianca sulla critica a tutto campo delle politiche fallimentari dell’amministrazione Biden.

In molti negli ambienti progressisti indipendenti avevano accolto favorevolmente la candidatura di Kennedy jr., grazie al messaggio anti-bellico, anti-imperialista e a tratti vagamente anti-capitalista che sembrava caratterizzarlo. Con il passare dei mesi è stata fatta notare però una certa deriva verso destra, evidenziata tra l’altro dai suoi frequenti interventi su network conservatori, a cominciare da Fox News.

La sua strategia sembra essere di strizzare l’occhio all’elettorato trumpiano e alla galassia libertaria che negli ultimi anni è cresciuta considerevolmente negli Stati Uniti, fino a diventare una parte importante del variegato movimento pacifista e anti-“deep state”, sempre meno frequentato dalla sinistra ufficiale. Le posizioni critiche delle misure di contenimento del COVID-19 e della campagna vaccinale gli hanno inoltre procurato la prevedibile accusa di cospirazionismo, ma è su altre questioni che si sono accese le polemiche sulla sua candidatura, soprattutto alla luce degli eventi di questi ultimi giorni.

Come lo stesso Trump, anche Kennedy jr. ha cercato di cavalcare la crescente opposizione tra gli americani alla guerra in Ucraina alimentata dall’amministrazione Biden. Tuttavia, l’esplosione del conflitto tra Israele e palestinesi minaccia di far crollare la maschera pacifista e anti-sistema. Dopo l’attacco a sorpresa di Hamas e della Jihad Islamica e la violentissima reazione israeliana contro Gaza, Kennedy jr. ha preso una posizione ufficiale a sostegno del regime sionista e dell’oppressione contro il popolo palestinese. In un comunicato stampa, il candidato alla presidenza USA ha definito “non provocata” l’azione di Hamas, per poi dichiararsi a favore dell’invio di armi a Israele senza alcuna limitazione.

Le tendenze filo-israeliane di Kennedy jr. non sono peraltro una novità, ma è evidente che l’uscita pubblica tempestiva per mettere in chiaro le proprie opinioni sulla più calda delle questioni mediorientali, mentre Tel Aviv promette letteralmente di distruggere Gaza e la resistenza palestinese, lascia pochi dubbi sulla linea di politica estera che seguirebbe una sua eventuale amministrazione. Allo stesso tempo, la fedeltà alla causa sionista conferma l’avvicinamento alla destra repubblicana che, se da un lato vede con apprensione l’avventura ucraina, è in grandissima parte irriducibilmente filo-israeliana e anti-palestinese.

Gli aspetti che fanno di Robert F. Kennedy jr. un candidato difficilmente riconducibile all’area progressista a sinistra del Partito Democratico sono anche altri. Sia per convinzione o per opportunismo, il nipote di JFK ha ad esempio assunto posizioni reazionarie sul tema dell’immigrazione. Qualche mese fa aveva annunciato un cambiamento di opinione a questo proposito, tanto da invocare ufficialmente la chiusura ai migranti del confine meridionale con il Messico.

I sondaggi americani più recenti assegnano a Kennedy jr. un gradimento tra i potenziali elettori superiore al 30%. In caso avesse preso parte alle primarie democratiche, sempre secondo le indagini di opinione, si sarebbe potuto accaparrare fino a un quarto dei voti tra i sostenitori del partito. Il lancio della candidatura da indipendente conforterà probabilmente l’establishment democratico che punta, salvo imprevisti, al secondo mandato di Joe Biden. Nelle presidenziali vere e proprie, Kennedy jr. potrebbe rappresentare invece una vera e propria mina vagante, non tanto perché abbia reali chances di vittoria, quanto per la possibilità di sottrarre voti tra gli elettori di praticamente qualsiasi orientamento, purché frustrati dall’attuale sistema.

In ogni caso, mai nessun candidato indipendente ha conquistato la presidenza degli Stati Uniti e gli esempi di maggiore successo risalgono come minimo a molti decenni fa. Oggi è ancora più difficile competere da “outsider”, visti gli ostacoli logistici e la vera e propria guerra mediatica che gli aspiranti alla presidenza o ad altre cariche nazionali si trovano puntualmente a dover affrontare. Allo stesso tempo, il degrado della vita politica e delle condizioni sociali del paese sembrano preparare come non mai il terreno anche in America per un superamento del bipartitismo.

Che ciò avvenga con Robert F. Kennedy jr. è comunque molto improbabile, nonostante l’appeal del suo cognome e la validità oggettiva di alcune delle sue proposte politiche. Ripercorrendo la storia della repubblica, sono solo una manciata i candidati non affiliati ai principali partiti che negli Stati Uniti sono riusciti a conquistare qualche “voto elettorale”. Il caso più recente è quello del segregazionista governatore dell’Alabama George Wallace nel 1968 (46 voti elettorali), mentre ad andare relativamente più vicino alla vittoria fu l’ex presidente Theodore Roosevelt, candidatosi per il partito Progressista nel 1912 e in grado di conquistare 88 voti elettorali sui 531 che erano a quell’epoca complessivamente in palio.

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