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Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato

L'Arabia Saudita ha deciso questa volta di giocare tutte le sue carte: dopo aver ottenuto ciò che sembrava impossibile riappacificando, a suon di petrodollari, Fatah e Hamas nel governo di unità palestinese, la monarchia del Golfo sta cercando ora di risolvere definitivamente il conflitto tra Israele e Paesi arabi e ridisegnare un nuovo Medioriente a propria immagine. Il piano di pace saudita del 2002, riproposto la scorsa settimana all'unanimità dalla Lega Araba, mette in forte imbarazzo il governo di Gerusalemme. L'incubo per gli israeliani è la clausola sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi, ma intanto informalmente diplomatici americani, israeliani e sauditi lavorano per cercare soluzioni alternative. Nel frattempo, il governo israeliano schiera le truppe sul Golan, in caso di guerra estiva con la Siria, e riprende le incursioni a Gaza dopo settimane di fragile cessate il fuoco. La diplomazia saudita ha evidentemente giudicato la finestra temporale favorevole al cambiamento. L'alleato di ferro degli Stati Uniti è entrato in campo a gamba tesa durante il vertice della Lega Araba a Riyad della scorsa settimana, quando il ministro degli esteri Principe al-Faisal ha chiesto che venga posta fine al più presto alla “occupazione illegale” dell'Iraq che sta causando una sanguinaria guerra civile. Tra le righe, un amichevole consiglio all'amministrazione americana di non provare a sabotare i piani sauditi: se Bush vuole liberarsi dell'Iran di Ahmadinejad, la monarchia sunnita rivendica il ruolo di nuova potenza regionale.
Per ristabilire i rapporti di forza, tuttavia, l'ostacolo principale è lo stato di guerra permanente tra i Paesi arabi e Israele, che impedisce la stabilizzazione dell'area, come dimostrato la scorsa estate con lo scoppio improvviso della guerra in Libano.

I sauditi quindi forzano la mano e propongono una soluzione comprensiva e dettagliata al conflitto israelo-palestinese: il riconoscimento di Israele da parte di tutti i Paesi arabi in cambio del ritiro di Israele sulla Linea Verde del '67, l'istituzione di uno Stato Palestinese nei Territori Occupati e una “soluzione giusta” al problema dei profughi palestinesi, secondo quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza. Quello che cinque anni fa non era possibile realizzare, con l'amministrazione Bush impegnata a preparare la guerra a Saddam e Ariel Sharon a trasformare Gaza in prigione per rinchiuderci la seconda Intifada, sembra diventato possibile ora che gli americani sono intrappolati in Iraq e la potenza iraniana cerca di ampliare la propria influenza. Gli Usa non possono permettersi questa volta di rifiutare l'aiuto offerto dalla Lega Araba e, nelle speranze saudite, potrebbero finalmente portare Israele per mano al tavolo delle trattative, come testimonia la costante staffetta di Condoleezza Rice tra Washington, Gerusalemme e Ramallah.

La mossa diplomatica saudita è particolarmente riuscita, poiché ribalta gli equilibri diplomatici (e mediatici) in cui sono naufragate le trattative di Camp David. Nell'ultimo periodo dell'amministrazione Clinton, la corazzata della propaganda israeliana riempiva le news degli Stati Uniti delle “generose offerte” che l'allora premier Barak proponeva ad Arafat. Quello che importava non era la sostanza delle proposte (trasformare la West Bank in un Bantustan a macchia di leopardo), che Arafat non avrebbe mai potuto accettare, ma il fatto che Israele era stato il primo a offrire la pace e i palestinesi l'hanno poi rifiutata. Ora, non i palestinesi, ma tutta la Lega Araba sta offrendo la pace ad Israele, e la leadership ebraica si trova in un drammatico vicolo cieco. Tanto che il Principe al-Faisal si è spinto fino a minacciare che, se Gerusalemme rifiuterà anche questa volta una proposta di pace comprensiva, allora Israele “si sta mettendo nelle mani dei signori della guerra.”

Ciò che al momento ancora manca è l'opinione della parte in causa, ovvero i palestinesi. In realtà, la tempistica della Lega Araba è oltremodo riuscita anche per questo aspetto, su cui si è pesata la reale influenza dello monarchia saudita sulle vicende mediorientali. A differenza dei negoziati di Camp David, per la prima volta ora tutte le fazioni palestinesi sono entrate nel gioco politico del governo di unità nazionale, creato alla Mecca dal Principe al-Faisal. Anche se le questioni diplomatiche sono prerogativa del Presidente palestinese Mamhoud Abbas, è chiaro che lo svolgimento di eventuali negoziati verrà concordato da Fatah e Hamas insieme e, nel caso venga raggiunto un accordo, questo non correrà più il rischio di essere sabotato dalle cosiddette “frange estremiste”, che ora, normalizzate, siedono nel governo stesso.

La risposta israeliana alla proposta araba è stata per il momento confusa e contraddittoria: il premier israeliano Olmert sta cercando di guadagnare tempo in attesa che Bush decida cosa fare. Nelle sue ultime dichiarazioni, Olmert ha giudicato “positivo” il piano di pace arabo, ma ha messo in chiaro che Israele non si siederà a nessun tavolo ufficiale fino a che non verrà rimossa la clausola sul ritorno dei profughi palestinesi. Essendo ben noto che la questione dei profughi è irrinunciabile per i palestinesi, queste affermazioni equivalgono ad un secco rifiuto al dialogo. Tuttavia, ufficiosamente sono state avviate trattative tra diplomatici americani, israeliani e sauditi alla ricerca di un modo per aggirare questo scoglio apparentemente insormontabile.

La strada più promettente riguarda una possibile compensazione economica per quei profughi che decidano di restare nei paesi di attuale residenza. La Libia si opporrà sicuramente a questa soluzione: Gheddafi ha fatto sapere che in tal caso avvierà la deportazione in massa delle decine di migliaia di profughi presenti sul suolo libico. Altri paesi, come la Giordania, dove vivono un milione e mezzo di palestinesi, hanno già accettato la proposta. La precedenza verrebbe data ai trencentomila profughi che vivono in condizioni misere nel sud del Libano. È chiaro che per portare avanti questa soluzione servirà un imponente finanziamento, quindi uno dei problemi principali resta dove reperire i fondi e come gestirli.

Nell'ipotesi che il rifiuto dell'offerta di pace da parte israeliana venga preso come un atto di guerra dai paesi confinanti (come minacciato dai sauditi), l'esercito israeliano sta iniziando a riposizionarsi sulle alture del Golan, i territori siriani occupati da Israele. Il capo dell'intelligence militare ha parlato di misure difensive in caso di “guerra estiva” con il nemico siriano, mentre sul fronte meridionale, il ministro della Difesa Peretz ha deciso di riprendere le operazioni dell'IDF nella Striscia di Gaza, infrangendo settimane di fragile tregua. Il motivo ufficiale è che “non è possibile permettere ad Hamas di riarmarsi”: l'esercito ha l'ordine di preparare l'ennesima reinvasione di Gaza per quest'estate, anche se dovesse costare, come previsto, molte perdite israeliane.

È chiaro dunque che Olmert sta prendendo tempo, sperando che qualche evento tolga di mezzo il piano di pace arabo, approfittando che la “situazione sul campo” nella West Bank (così viene chiamato l'inarrestabile aumento degli insediamenti di coloni israeliani) renda di fatto impraticabile la creazione di uno Stato Palestinese con contiguità territoriale e il ritiro lungo la Linea Verde del '67.