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Categoria: Esteri
di Daniele John Angrisani

Mentre in Italia il governo Prodi riusciva, seppure per una manciata di voti, a salvarsi sul decreto per il rifinanziamento delle truppe in Afghanistan, anche oltreoceano è andato in onda lo psicodramma della politica estera in Parlamento. Ad una settimana dall'approvazione da parte della Camera dei Rappresentanti della legge che prevede di vincolare l'erogazione dei fondi supplementari, necessari per finanziare l'aumento delle truppe in Iraq proposto dal presidente Bush all'approvazione di un calendario per il loro ritiro definitivo entro settembre 2008, anche il Senato americano ha deciso di sfidare apertamente il presidente sul terreno minato della questione irachena. Con un voto di 50-48 il Senato a maggioranza democratica ha infatti deciso di approvazione una sua mozione che richiede il ritiro delle truppe entro il marzo 2008, come condizione per l'approvazione dei fondi aggiuntivi richiesti. Tale mozione, però, ha più valenza politica che pratica, in quanto non è vincolante ed in ogni caso non pregiudica l'approvazione finale di questi fondi da parte del Senato. Diverso è il discorso per la mozione approvata dalla Camera che è invece vincolante e rappresenta un serio tentativo di pressione nei confronti dell'Amministrazione repubblicana. Dal canto suo la Casa Bianca ha già fatto sapere, mediante le dichiarazioni di un portavoce e dello stesso presidente Bush, che considera tale decisione come un "errore enorme" da parte democratica e che, comunque, è pronta a mettere il veto a qualsiasi proposta di legge che preveda una scadenza fissa per il ritiro delle truppe dall'Iraq, in quanto "metterebbe a rischio la sicurezza" dei soldati americani presenti nel Paese. Allo stesso tempo Bush ha accusato i democratici di temporeggiare e di mettere a rischio la vittoria finale contro i terroristi, affermando che se i fondi verranno negati "il popolo americano saprà capire bene di chi è la colpa" se le cose dovessero volgere per il peggio. Il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha invece salutato con favore l'approvazione della mozione, affermando che si tratta di un segnale del Senato alla Casa Bianca per "cambiare radicalmente la politica irachena" dell'Amministrazione americana. A prescindere dai toni forti usati dai principali attori in campo, è la prima volta che il nuovo Congresso mostra di voler in qualche modo condizionare, realmente, la politica estera del presidente Bush.

I democratici sanno di poter contare, in questa battaglia, su buona parte dell'opinione pubblica americana: i sondaggi mostrano da circa due anni a questa parte un continuo ed inesorabile declino dell'indice di fiducia verso il presidente Bush e la sua politica irachena e gli ultimi “opinion polls” indicano che quasi il 60% degli elettori americani sarebbe pronto ad appoggiare una calendario definito per il ritiro delle truppe dall'Iraq. All'inizio di quella che si preannuncia come una lunghissima e dura campagna elettorale per le presidenziali che si giocherà fino all'ultimo voto, visti dal quartier generale dei repubblicani questi dati fanno paura.
E' anche questo il motivo per il quale alcuni deputati e senatori dell'opposizione repubblicana, in particolar modo buona parte di coloro che dovranno ripresentarsi alle elezioni nel 2008, hanno deciso alla fine di votare a favore delle mozioni presentate dalla maggioranza. Dal canto loro i democratici non riescono comunque a far frutto delle divisioni nel campo avversario, a causa principalmente della mancanza di un progetto politico chiaro per una “exit strategy “dall'Iraq.

Il simbolo vivente dell'ambivalenza e della titubanza democratica è indubbiamente la candidata presidenziale, nonché senatrice in carica, Hillary Clinton. Dopo aver votato il 12 ottobre 2002 a favore della concessione dei poteri di guerra al presidente sull'Iraq, adesso sembra aver cambiato idea, ma la sua "conversione sulla via di Baghdad", come è stata definita da alcuni opinionisti, non ha convinto nessuno dei suoi (tanti) detrattori. Sebbene i sondaggi la vedano ancora favorita per la “nomination” democratica, è opinione comune che la partita non sia ancora chiusa e che, una ulteriore recrudescenza della violenza in Iraq, potrebbe favorire maggiormente il suo principale rivale per la corsa alla “nomination”, ovvero il senatore nero dell'Illinois, Barack Obama, che, a differenza della Clinton, è stato contrario alla guerra in Iraq sin dal primo giorno. Per questo motivo ha molta più possibilità della senatrice di New York di guadagnare i voti di quella fetta di elettorato, sempre più corposa, che vuole il ritiro delle truppe dall'Iraq il prima possibile e che potrebbe essere decisiva per la corsa alla Casa Bianca.

Tutto però è assolutamente in movimento. Paradossalmente è proprio sul campo che, stando al Pentagono, arrivano le uniche piccole note positive per il presidente Bush e per i repubblicani. A seguito delle operazioni di "ripulitura" dei quartieri sciiti e sunniti della capitale irachena, effettuate ad inizio di questo mese, il numero e la violenza degli attacchi terroristici a Baghdad è diminuito sensibilmente, cosa che permesso al nuovo comandante delle truppe americane di stanza in Iraq, David Petraeus, di affermare che il "piano i Bush sta avendo successo".

In realtà le cose non stanno esattamente così e la situazione è molto più complessa di quanto possano lasciare trasparire i comunicati ufficiali dei militari americani. Al di fuori della capitale irachena, ed in particolare nel cosiddetto "triangolo sunnita" o nella provincia di Al Anbar, i guerriglieri si dimostrano tuttora capaci di colpire dove, quando e come vogliono, in un regime di assoluta impunità, che dimostra l'incapacità del governo iracheno di controllare questi territori. Ma ciò che manca sul serio è una vera strategia politica per la conclusione della guerra.

Un timido passo avanti è stato compiuto anche in questa direzione con la Conferenza di Baghdad tenutasi in questo mese nella capitale irachena e che ha visto la presenza, di diplomatici occidentali, di rappresentanti di due Paesi confinanti con l'Iraq e di estrema importanza per la ricerca di una soluzione pacifica alla crisi: Siria ed Iran. Sono in molti, tra gli osservatori politici e gli esperti militari americani, che ritengono ormai che nessuna soluzione sia possibile senza la partecipazione di questi due Paesi al processo di pacificazione dell'Iraq e al disarmo dei gruppi armati, condizione irrinunciabile per l'avvio di colloqui nel Paese che portino alla fine della guerra civile in atto.

E' però al momento molto difficile prevedere come si evolveranno le cose, anche perchè l'Iran, lungi dal voler aiutare a risolvere la crisi, si dimostra, esso stesso, un potenziale focolaio di crisi, a causa delle bellicose dichiarazioni del presidente Ahmadinejad sull'esistenza dello Stato di Israele, e soprattutto della tenacia con cui lo stesso rifiuta di adempiere alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sul programma nucleare; cosa che, secondo i suoi molti detrattori, potrebbe permettere all'Iran di dotarsi di armi nucleari in tempi relativamente brevi.

Entrata ormai nel quinto anno di guerra nel "pantano iracheno", l'unica cosa su cui concordano tutti a Washington è che l'America non può perdere questa guerra, se non vuole perdere anche se stessa. Come far per riuscirci, è il grande dilemma dei prossimi mesi.