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di Agnese Licata

Dopo il pesante attentato che a metà ottobre aveva causato oltre cento morti e 150 feriti, le Tigri per la liberazione della patria Tamil (Ltte) e le loro rivendicazioni d’indipendenza sono tornate a comparire sulle pagine dei giornali occidentali. Questa volta il bilancio non è andato oltre tre feriti (non gravi), ma la portata internazionale dell’ultimo attentato in Sri Lanka è stata anche più ampia. Ad essere colpiti questa volta, infatti, non sono stati guerriglieri, soldati o civili locali, ma un gruppo di diplomatici arrivati in elicottero nella base aerea di Batticaloa per coordinare gli aiuti ai rifugiati nella parte est del Paese, in fuga dalla guerriglia. Tra i feriti dai colpi di mortaio e dalle schegge di granata anche Pio Mariani, ambasciatore italiano nell’isola, oltre all’americano Robert Balnke e al tedesco Jurgen Weerth. Le Tigri Tamil non hanno negato la loro responsabilità dell’attacco alla base (situata sulla costa est del Paese e tornata di recente sotto il controllo governativo dopo undici anni di dominio delle Ltte), ma si sono dichiarate dispiaciute per il coinvolgimento degli ambasciatori, facendo rimbalzare le colpe sui militari cingalesi, responsabili, a loro dire, sia di aver dato il via allo scontro armato, sia di non aver comunicato la presenza dei diplomatici.

Non si è fatta attendere la reazione del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon che, attraverso il suo portavoce, ha condannato l’azione delle Tigri, definendola di “totale disprezzo per le vite di civili, operatori umanitari, funzionari di governo e comunità internazionale” e invitando entrambe le parti a “cessare la spirale distruttiva di violenze” per tornare al processo di pace il prima possibile. Dal canto suo, la risposta scelta dal governo è stata quella della violenza. Al di là, infatti, della promessa del presidente Mahinda Rajapakse di mettere sul piatto delle trattative una proposta di condivisione dei poteri, le ore successive all’aggressione hanno visto i militari cingalesi attaccare le postazioni delle Ltte. L’agenzia Misna riferisce che l’aviazione avrebbe subito bombardato le loro postazioni nella giungla di Thoppigala, 50 chilometri a sudovest di Batticaloa. La marina ha inoltre rivendicato la distruzione di due navi ribelli e l’uccisione di almeno quindici guerriglieri.

Secondo alcune stime, dal 1983 (anno d’inizio degli scontri armati) ad oggi, il conflitto tra le Tigri e l’esercito avrebbe causato circa 65mila morti, senza contare il milione di sfollati, costretti ad abbandonare le proprie case da uno scontro che sta distruggendo la fragile economia di quest’isola a sud dell’India. La rivendicazione, qua come nel Kashmir, in Cecenia, nel Kosovo, è sempre la stessa: l’indipendenza di una minoranza profondamente radicata in un’area del Paese. I Tamil (un popolo con una forte identità linguistica e storica), infatti, pur rappresentando solo il 12,5 per cento della popolazione totale dello Sri Lanka, prevalgono in quasi tutta la zona nord-est dell’ex Ceylon britannica e chiedono quindi la costituzione di uno Stato indipendente con sede a Jaffna. Richieste sempre respinte con forza dai vari governi cingalesi che si sono susseguiti al potere.

Non è facile capire il perché di questo forte insediamento Tamil nel Nordest: anche la storia è spesso soggetta a giochi politici e interpretazioni di parte. Quello che è certo è che l’equilibrio tra le varie etnie in Sri Lanka è stato incrinato a partire dal 1800, con l’inizio del dominio inglese sull’isola. Innanzitutto a causa della decisione inglese di riunire in un’unica colonia – Ceylon – le tre zone indipendenti che la costituivano precedentemente. Ma fu soprattutto la pratica inglese di “importare” lavoratori Tamil dal sud dell’India, costringendoli a lavorare nelle piantagioni di tè, caffè e cotone del nord di Ceylon, ad aver posto le basi di questa frattura interna al Paese. Frattura trasformatasi in tensione dopo l’indipendenza del 1948 e l’insediamento di governi cingalesi fortemente nazionalisti e contro i Tamil. Proprio dalla decisione del governo di limitare l’accesso degli studenti tamil all’Università nacque un movimento studentesco di protesta, che, poi, nel 1976, si trasformerà nelle Tigri per la liberazione della patria Tamil e darà il via alla guerra civile.

In tutti questi anni sono stati diversi i tentativi internazionali di portare stabilità e pace a un popolo che ha dovuto fronteggiare anche l’emergenza umanitaria dello tsunami nel 2004. La nazione che più si è impegnata nella mediazione è stata la Norvegia, alla quale si devono le trattative che nel 2002 hanno portato alla stipula di un “cessate il fuoco”. Quegli accordi prevedevano uno scambio di prigionieri e la rinuncia delle Ltte all’indipendenza. Una pace che non è durata a lungo. La nuova ondata di violenza è infatti iniziata nel 2006, dopo l’intransigente campagna elettorale dell’attuale presidente Mahinda Rajapakse contro l’autonomia Tamil. Non sono serviti a ristabilire la pace neanche gli incontri svolti a Ginevra alla fine dell’ottobre scorso.

Adesso, dopo il maggiore interesse internazionale causato dal ferimento dei tre diplomatici occidentali, la speranza è che sia l’Onu in prima persona a farsi garante del processo di pace, per porre fine a un conflitto lungo più di vent’anni.